RISORGIMENTO POLITICO ITALIANO

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  1. *la_debbO*
     
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    RISORGIMENTO POLITICO ITALIANO (sintesi)

    Per Risorgimento si intende quel processo politico, sociale e culturale che si sviluppò in Italia nei primi sessanta anni del XIX secolo e che portò al raggiungimento dell’unità politica nazionale.
    L’Italia, all’inizio dell’800, ancora non era una nazione, cioè uno Stato nazionale unitario, e da tanti secoli ormai subiva dominazioni straniere.
    La Rivoluzione francese e l’età napoleonica avevano però risvegliato il sentimento nazionale italiano.
    Durante il periodo napoleonico si era formata, all’interno di ristretti ceti intellettuali della borghesia settentrionale, una prima coscienza nazionale.
    Questa borghesia del nord aveva iniziato a porsi il problema dell’unità politica nazionale, anche perché essa aveva compreso che, senza uno Stato nazionale unitario, non si sarebbe mai potuto verificare un vero sviluppo industriale: infatti la costituzione di un mercato nazionale interno era una condizione indispensabile per far decollare l’industria.
    La dinamica borghesia settentrionale infatti già dal ‘700 aveva sviluppato un’agricoltura in senso capitalistico ed aveva creato una prima base industriale: nell’Italia del nord erano nate ad esempio le prime industrie moderne, legate soprattutto al ramo tessile, in particolare ai settori della lana, della seta e del cotone.
    Si trattava però di un’industrializzazione del tutto insufficiente, ancora molto legata all’agricoltura. Ad esempio buona parte dei primi operai impiegati in tali industrie era costituita da contadini (lavoranti stagionali, precari, lavoratori a domicilio).
    Quindi si era diffusa la consapevolezza che per determinare un vero sviluppo industriale fosse ormai necessaria la nascita di un unico grande mercato nazionale: ma ciò implicava che l’Italia diventasse uno Stato nazionale unitario. Il Risorgimento fu l’attuazione di tale progetto: esso iniziò con le sette carbonare e si concluse con la Seconda guerra di Indipendenza (1859-60).
    Il termine “Risorgimento”, usato nell’Ottocento, indicò la rinascita dell’Italia alla libertà ed all’indipendenza, dopo secoli di asservimento alle diverse dominazioni straniere.
    Nel 1847 Cavour fondò a Torino un giornale che non a caso s’intitolò “Il Risorgimento”, su cui cominciò a scrivere articoli nei quali delineò progressivamente quella che, nel decennio successivo, sarebbe stata la sua strategia politica liberale.
    Nell’ambito del Risorgimento italiano si delinearono alcune correnti che si differenziarono tra loro per il diverso tipo di proposta e per la differente strategia.
    Possiamo distinguere almeno queste correnti principali:

    1) corrente democratico-repubblicana, definita anche con il termine di Partito d’azione. Al suo interno si distinsero a sua volta tre grandi filoni:

    A) quello repubblicano-unitario di Mazzini;
    B) quello repubblicano-federale di C. Cattaneo;
    C) quello repubblicano-sociale di G. Ferrari e C. Pisacane.

    A) Mazzini proponeva la creazione di una repubblica parlamentare unitaria e centralizzata, ispirata grosso modo a quella giacobina della Rivoluzione francese.
    Per raggiungere questo scopo egli predicò l’insurrezione armata del popolo: infatti, secondo il patriota italiano, le esperienze dei moti carbonari avevano dimostrato che la libertà e l’unità d’Italia potevano venire solo dal basso, ossia dal concorso e dalla partecipazione diretta di tutto il popolo, mobilitato anche da un punto di vista militare.
    Mazzini quindi escluse decisamente l’intervento, in tale processo, sia dei principi stranieri, che in realtà erano interessati solo ad ottenere vantaggi, sia dei principi italiani, altrettanto interessati a rafforzare solo la propria posizione politica e ad espandere i propri territori (come aveva dimostrato il moto di Modena del 1831), e non certo a creare una nazione italiana unita e repubblicana.
    Su questo punto la distanza tra la corrente mazziniana e lo schieramento moderato (Balbo, Cavour) fu abissale, tanto che i moderati, legati alla dinastia dei Savoia, considerarono Mazzini come un pericoloso sovversivo.
    Tuttavia il progetto del Mazzini non trovò riscontro nella realtà effettiva, poiché anche il suo movimento presentò più o meno quegli stessi limiti della Carboneria che esso voleva superare. Infatti i moti insurrezionali organizzati da Mazzini e dai suoi seguaci presentarono gli stessi difetti di quelli carbonari.
    Nel 1833 fu organizzato un moto nel regno di Sardegna, avrebbe dovuto esserci una rivolta a Genova ed Alessandria ma l’iniziativa, scoperta dalla polizia, abortì sul nascere.
    Nel 1834 un corpo di spedizione sarebbe dovuto entrare ancora nel regno di Sardegna e, in concomitanza, si sarebbe dovuta verificare una rivolta a Genova, ma anche in questo caso l’iniziativa fallì prima di cominciare. Ci furono arresti, condanne a morte e molti dovettero fuggire.
    Nel 1837 si verificarono due tentativi mazziniani a Cosenza e in Abruzzo ma fallirono.
    Nel 1844 ci fu l’infelice spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera, un altro clamoroso fallimento. Il movimento mazziniano entrò in crisi ma non scomparve, si evidenziarono però i suoi limiti, ossia la mancanza di una vera base popolare. Successivamente, negli anni ’50, si verificarono ulteriori tentativi insurrezionali organizzati da seguaci di Mazzini in Lombardia (i “Martiri di Belfiore”) e in altre parti d’Italia.
    Pertanto il mazzinianesimo fu tutt’altro che un movimento popolare di massa dal momento che riguardò solo un ceto ristretto.
    La stragrande maggioranza dei contadini, che costituivano più dell’80 % della popolazione italiana, fu del tutto estranea, se non proprio ostile, a tale movimento. Mazzini non riuscì mai a creare quella vasta mobilitazione popolare che egli propugnava e predicava: infatti gli aderenti alla Giovane Italia, l’associazione politica da lui fondata all’inizio degli anni ‘30, furono pochi e disorganizzati, tanto è vero che i loro tentativi insurrezionali fallirono miseramente.
    Nonostante ciò, la Giovane Italia costituì una novità importante nella storia italiana: essa fu, in un certo senso, il primo vero partito politico nazionale, un partito cioè che tendeva a superare i limiti regionali e locali per porsi appunto in una prospettiva nazionale.
    La Giovane Italia infatti non fu più una setta segreta ma fu invece un partito pubblico, basato su un programma esplicito, chiaro, diffuso attraverso la stampa e la predicazione degli attivisti: Mazzini infatti attribuiva notevole importanza all’aspetto propagandistico e pubblico della sua azione politica, proprio perché aspirava a coinvolgere nel processo rivoluzionario le masse popolari.
    Mazzini inoltre fu il primo pensatore ed agitatore ad occuparsi della questione operaia e sociale: il mazzinianesimo coincise con la prima fase della storia del movimento operaio italiano (relativamente agli anni ‘40-‘50-‘60).
    Mazzini fondò le prime associazioni operaie, aventi lo scopo di tutelare gli interessi economici e materiali dei lavoratori, come ad esempio l’assistenza in caso di malattie, infortuni, vecchiaia; furono creati anche i primi banchi di mutuo soccorso, che concedevano prestiti a basso tasso di interesse alle famiglie operaie.
    Su questo terreno il pensiero del grande patriota prese le distanze dalle teorie socialiste di K. Marx e da quelle anarchiche di M. Bakunin.
    Mazzini infatti era contrario alla lotta di classe, alla contrapposizione netta tra capitale e lavoro propugnata da Marx, quindi era contrario all’abolizione della proprietà privata e alla statalizzazione dell’economia sostenute dal socialismo.
    Per superare la divisione esistente nell’economia capitalista tra interessi del capitale ed interessi dei lavoratori, egli si fece promotore del movimento cooperativistico: la cooperativa infatti tendeva a conciliare e unire lavoro e capitale, in quanto gli operai diventavano soci che possedevano, in modo collettivo, il capitale aziendale della cooperativa. Quindi essa realizzava una sorta di proprietà comune degli operai.
    B) Carlo Cattaneo, in alternativa a Mazzini, si fece invece promotore di una proposta repubblicano-federale.
    Il Cattaneo, tenendo conto delle profonde differenze economiche, sociali e culturali esistenti tra le varie zone d’Italia, sostenne che la strada più concreta e praticabile da seguire fosse quella di creare una repubblica federale che avrebbe dovuto concedere ai singoli Stati regionali autonomie molto ampie.
    Tali autonomie erano così forti, da indurre molti studiosi a ritenere che in realtà il progetto politico di Cattaneo consistesse più in un tipo di Stato confederale che non in una federazione.
    C) Pisacane e Ferrari proposero invece una rivoluzione nazional-popolare che coinvolgesse direttamente le masse contadine e che mirasse all’instaurazione di una repubblica fortemente connotata in senso sociale, se non proprio socialistico, in quanto fondata sull’attuazione di una radicale riforma agraria, che avrebbe dovuto abbattere i latifondi e i privilegi e dare finalmente la terra ai contadini poveri.

    2) Corrente cattolico-moderata: il maggior esponente fu Vincenzo Gioberti. Questa corrente propose una soluzione del problema affidata esclusivamente all’azione dei principi italiani che, convertiti alla causa del liberalismo moderato, avrebbero dovuto formare una confederazione degli Stati italiani presieduta dal papa.
    Gioberti quindi, rispetto al problema politico nazionale, assegnò un ruolo di guida alla Chiesa cattolica (per la fondamentale funzione storico-culturale che essa aveva svolto nella società italiana in tanti secoli) e per tale ragione la sua corrente fu designata con il termine di neoguelfismo (molto importante fu il suo scritto Il primato morale e civile degli italiani).
    La sua proposta pertanto non prevedeva la nascita di uno Stato nazionale unitario ma solo quella di una Confederazione degli Stati italiani già esistenti (vedi differenza tra federazione e confederazione, già studiata a suo tempo…).
    Questo progetto toccò il suo culmine nel biennio riformista 1846-1847 e nella partecipazione dello Stato pontificio alla Prima guerra d’Indipendenza (1848-49). Il sogno del neoguelfismo naufragò con il ritiro del papa dalla suddetta guerra.
    3) Corrente laico-moderata: fu quella di Cesare Balbo (di cui bisogna ricordare lo scritto Le speranze d’Italia), di Massimo d’Azeglio e soprattutto di Camillo Benso conte di Cavour. Essa negò qualsiasi ruolo all’iniziativa popolare e democratica, in quanto ritenne che il problema dell’indipendenza e dell’unità d’Italia si potesse e si dovesse risolvere soltanto attraverso un’azione politico-diplomatica proveniente dall’alto, cioè guidata dalla Casa Savoia, che avrebbe dovuto prima preparare il terreno favorevole, tessendo un’adeguata rete di alleanze all’estero ed in Italia (con i movimenti patriottici), e poi condurre una guerra finale vittoriosa contro l’Austria. Sarà quello che avverrà con Cavour nel 1859-60 (Seconda Guerra d’Indipendenza).

    L’UNITA’ D’ITALIA (sintesi della Seconda guerra d’indipendenza)

    Con la sconfitta piemontese del 1849 iniziò una nuova fase del Risorgimento italiano: il decennio cavouriano, come fu definito (1850-1861).
    La strategia politica del Conte di Cavour era quella di un liberale laico moderato che escludeva decisamente che il problema italiano fosse in qualche modo risolvibile tramite un’iniziativa popolare ed insurrezionale, come veniva propugnato dal movimento democratico-repubblicano.
    Cavour invece riteneva che solo l’azione politica e diplomatica condotta dal governo piemontese potesse trovare una soluzione adeguata al problema dell’indipendenza e dell’unità italiana: tale soluzione equivaleva a creare uno Stato ispirato al modello monarchico-costituzionale inglese.
    Dopo il fallimento delle rivoluzioni e della guerra contro l’Austria, il Piemonte aveva mantenuto comunque, unico tra gli Stati italiani, lo Statuto concesso da Carlo Alberto nel 1848.
    Cavour iniziò la sua ascesa politica diventando ministro nel governo di Massimo D’Azeglio; successivamente attuò quella manovra politica definita connubio con cui si stabilì un accordo tra la fazione più avanzata della destra parlamentare piemontese con la parte più moderata della sinistra: si formò dunque un gruppo di centro che consentì di formare il suo primo governo.
    Consapevole del fatto che solo tramite alleanze internazionali tra Piemonte, Francia ed Inghilterra si potesse sconfiggere l’Austria, lo statista piemontese cercò di isolare politicamente l’Austria.
    A questo scopo Cavour iniziò un lavoro diplomatico tendente a creare un'alleanza soprattutto con la Francia di Napoleone III: l’occasione si presentò nel 1854, quando Inghilterra e Francia corsero in aiuto della Turchia aggredita dalla Russia (Guerra di Crimea, 1854-1855).
    Il Piemonte si inserì nel conflitto mandando un corpo di spedizione in Crimea: era una partecipazione più che altro simbolica ma servì ad avvicinare il Piemonte alla Francia e all'Inghilterra.
    Infatti, terminata la guerra, nel 1856 si tenne a Parigi la Conferenza di Pace e in quella occasione Cavour impose che si discutesse anche del problema nazionale italiano, ricevendo la simpatia ed il sostegno della Francia napoleonica e dell'Inghilterra costituzionale.
    Si arrivò così agli accordi di Plombières del 1858 tra Napoleone III e Cavour: in essi si stabilì che, in caso di aggressione da parte dell'Austria, la Francia sarebbe intervenuta al fianco del Piemonte.
    Se ciò fosse avvenuto (tra l'altro era previsto che il Piemonte provocasse l'Austria affinché questa dichiarasse guerra), fu ipotizzato un piano di divisione dell'Italia in tre grandi Stati: Napoleone III era infatti contrario all'unità nazionale italiana anche perché ciò avrebbe comportato la fine dello Stato pontificio.
    Tra l'altro lo stesso Cavour non pensava che fosse giunto il momento per realizzare l'unità di tutta l'Italia.
    A Plombières quindi si ipotizzò una divisione dell’Italia basata su uno Stato settentrionale affidato al Piemonte, uno centrale, che comunque avrebbe dovuto lasciar sopravvivere un piccolo Stato pontificio, limitato al Lazio, ed uno Stato meridionale, affidato possibilmente ad un principe francese. Dopo questi accordi, tutta l’attenzione di Cavour fu rivolta a provocare l’Austria: egli così ordinò movimenti di truppe ed una mobilitazione militare ai confini con l'Austria.
    Quest’ultima cadde nel tranello ed ingiunse al Piemonte di smobilitare l'esercito: la risposta negativa del Piemonte determinò lo scoppio della guerra.
    Iniziò così la Seconda guerra d’indipendenza, che portò alla nascita del regno d'Italia (1859-60). La prima fase della guerra fu favorevole ai franco-piemontesi che sconfissero ripetutamente gli austriaci.
    La Lombardia fu liberata, mentre in Emilia e in Toscana si ebbero delle insurrezioni provocate dai patrioti che, scacciati i loro sovrani, chiesero l'annessione al Piemonte. Tuttavia, all'inizio dell'estate del ’59, Napoleone III si ritirò improvvisamente dalla guerra senza avvisare Cavour e firmò un armistizio con l'Austria.
    Diversi furono i motivi che indussero l’imperatore a compiere tale imprevedibile atto: tra l’altro egli aveva capito che la guerra stava avviando un processo di unificazione nazionale italiana che andava contro gli accordi di Plombières.
    Inoltre egli doveva tenere conto della pressione dei cattolici francesi, preoccupati per la sorte dello Stato pontificio, e non aveva altresì previsto il notevole tributo di sangue francese che le battaglie di giugno comportarono (Magenta, Solferino, San Martino).
    La guerra così si arrestò, Cavour si dimise e Vittorio Emanuele II fu costretto a firmare l’armistizio di Villafranca.
    Seguirono alcuni mesi di incertezza in cui l'iniziativa sembrò passare nelle mani del Partito d’azione, ossia dei democratici e dei repubblicani, che insistevano per un’iniziativa popolare. La situazione si sbloccò nel marzo del 1860, con il ritorno al governo di Cavour: Napoleone III infatti, temendo un’evoluzione in senso repubblicano della situazione italiana, accettò le annessioni dei territori tosco–emiliani, sancite dai plebisciti popolari, ed in cambio ottenne Nizza e la Savoia, come concordato a Plombières.
    Cavour intanto, di fronte al rifiuto di Napoleone di procedere a una conquista di Roma e del sud, cercò di impedire che l’iniziativa politica passasse nelle mani dei democratici, i quali in effetti si erano mobilitati.
    Garibaldi infatti si fece convincere ad organizzare la spedizione di un corpo di volontari (i mitici “Mille”) nel meridione, attuata nel maggio del 1860.
    L’iniziativa garibaldina, pur essendo un’iniziativa della corrente democratico-popolare, non fu esplicitamente osteggiata dalla Casa Savoia e da Cavour, che in qualche modo pensavano di poterne trarre dei vantaggi: la strategia adottata dal Piemonte in questa circostanza fu quella del “non aderire e non sabotare”. L’impresa di Garibaldi si risolse in un trionfo: sbarcato in Sicilia, l’eroe dei due mondi consegui una serie di vittorie militari, anche perché fu accolto come un liberatore dalle plebi siciliane, che si aspettavano soprattutto riforme economiche e sociali.
    L’esercito borbonico si disgregò e Garibaldi risalì la penisola diretto verso Napoli. Vittorio Emanuele II e Cavour chiesero allora a Napoleone III di poter inviare truppe nel sud per impedire che il meridione e Roma cadessero completamente nelle mani dei democratici: ciò sarebbe stato contrario agli interessi piemontesi e francesi.
    Con la battaglia del Volturno intanto Garibaldi sconfisse definitivamente i borbonici e conquistò Napoli: bisognava decidere a quel punto se proseguire fino a Roma oppure no.
    L’eroe, che era un ex mazziniano convertitosi poi alle idee del socialismo, ritenendo prioritario il problema dell’unità nazionale rispetto a quello della forma dello Stato (se monarchia o repubblica), accettò di consegnare a Vittorio Emanuele II le sue conquiste: il re infatti si era mosso verso sud e a Teano (Campania, ottobre 1860) si incontrò con Garibaldi che gli cedette i territori. I plebisciti (consultazioni a suffragio universale in cui si poteva scegliere solo tra il si e il no) sancirono l’annessione dell’ex regno delle due Sicilie al Piemonte.
    Nel marzo del 1861 venne solennemente proclamata la nascita del regno d’Italia, con capitale Torino, di cui Vittorio Emanuele II fu il primo re. Per completare l’unità nazionale mancavano ancora il Lazio, il Veneto ed il Trentino
     
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