CORRENTI POLITICHE EUROPEE NELLA PRIMA META’ DELL’800

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  1. *la_debbO*
     
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    CORRENTI POLITICHE EUROPEE NELLA PRIMA META’ DELL’800 (sintesi)

    Con la Rivoluzione Francese erano già comparse quelle forze politiche dal cui sviluppo nacquero gli schieramenti e i partiti del XIX e XX secolo.
    Nell’età della Restaurazione quindi si delinearono chiaramente quelle posizioni e quelle correnti ideologiche contrapposte che, soprattutto nella seconda metà dell’800, si trasformarono in veri e propri partiti politici. Si possono schematicamente indicare tali correnti:

    - Movimento reazionario: di estrema destra antiliberale, antilluminista, antidemocratico, sostenitore di un ritorno integrale del vecchio assolutismo di diritto divino e dell’alleanza organica tra religione e monarchia assoluta.
    Fece riferimento soprattutto alla classe aristocratica e latifondista che si poneva non solo contro il popolo (le plebi), ma anche contro la borghesia liberale ed illuminista.
    Tra i teorici di questa corrente bisogna ricordare J. De Maistre e De Bonald.

    - Costituzionalismo moderato: rappresentò l’ala più aperta ed illuminata dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, propendeva per un modello di monarchia limitata da un parlamento molto ristretto e da una Costituzione piuttosto moderata.
    Era assolutamente contrario all’idea della sovranità popolare (il potere che promana dal basso). La Costituzione moderata che questa corrente prevedeva si presentava come una concessione dall’alto, ossia come un beneficio elargito dal sovrano e non come un diritto del popolo. Osteggiava naturalmente ogni forma di giacobinismo e di democrazia radicale.
    In Francia questa corrente fece riferimento alle teorie dei cosiddetti “dottrinari”.
    I principali esponenti furono: F. Guizot e P. Collard.

    - Liberalismo: fu una variante del costituzionalismo moderato e fu espressione soprattutto della medio–alta borghesia.
    Esaltò il valore della libertà assoluta dell’individuo contro ogni forma di potere statale e clericale. Sviluppò in chiave politica le idee del giusnaturalismo, di Locke e di Montesquieu.
    Ebbe come riferimento il modello costituzionale inglese. Tra i suoi massimi teorici bisogna ricordare B. Constant e Toqueville.

    - Cattolicesimo liberale: con la Restaurazione la Chiesa cattolica assunse una posizione assolutamente reazionaria, tradizionalista, assolutista.
    Tuttavia in alcuni settori del cattolicesimo francese ed italiano si manifestò una cauta apertura verso alcuni principi del liberalismo.
    La tesi di fondo era che non necessariamente il cattolicesimo dovesse significare reazione e conservazione ma che al contrario anche i cattolici potessero condividere alcuni aspetti del liberalismo politico-sociale.
    Tra i teorici bisogna ricordare il francese Lamennais.
    Nell’ambito di questo filone politico si sviluppò in Italia, negli anni ‘30-40, la corrente del neoguelfismo, che propose una soluzione del problema italiano basata sull’ipotesi di uno Stato confederale presieduto dal papa (Gioberti, Rosmini).

    - Movimento repubblicano-democratico, erede della tradizione giacobina. Si ispirò alle teorie contrattualiste (cioè giusnaturaliste) e al concetto di sovranità popolare di J. J. Rousseau.
    Rispetto ai liberali, i democratici non consideravano importanti solo i diritti relativi alle libertà individuali ma insistevano anche sulla centralità di valori come l’uguaglianza, la giustizia sociale e la solidarietà.
    Esponenti significativi di questa importante corrente di pensiero politico furono, in Italia, personaggi come Mazzini e Cattaneo, e in Inghilterra pensatori come J. Bentham e John Stuat Mill.

    - Socialismo: si sviluppò nei primi decenni dell’800 sulla base di idee già emerse durante la rivoluzione francese, in particolare quelle del Babeuf e dell’italiano Buonarroti.
    I primi esponenti del pensiero socialista furono definiti utopisti in quanto tendenti a teorizzare una società giusta del tutto astratta ed ideale, quindi inattuabile. Le soluzioni da loro proposte apparvero poco concrete e poco applicabili alla effettiva realtà del tempo.
    Tuttavia, al di là del loro idealismo, questi pensatori e questi filantropi furono i primi studiosi e i primi critici della moderna società industriale e capitalistica, di cui colsero aspetti importanti.
    La prima critica del capitalismo si sviluppò all’interno del movimento romantico, che fu decisamente avversario dell’egoismo capitalistico-borghese a cui contrappose spesso la società medioevale organica, unitaria, solidale. Un romantico anticapitalista fu sicuramente lo svizzero Leonard Sismondì (1773-1842): egli, sul piano politico, fu seguace del Rousseau e fu un convinto federalista. Nelle sue opere economiche il Sismondì criticò aspramente la scuola liberista classica e sostenne che non fosse affatto vero che la produzione di nuova ricchezza generasse poi benessere ed equità per tutti. Anzi l’esperienza concreta dimostrava che il sistema capitalistico-industriale generava per lo più la miseria e la sofferenza delle classi lavoratrici.
    Egli colse così alcune contraddizioni tipiche del capitalismo: esso tendeva soprattutto alla realizzazione del profitto e non alla soddisfazione dei bisogni reali degli uomini e si presentava come una forma di sfruttamento, in quanto l’imprenditore non dava all’operaio il valore effettivo che egli creava attraverso il suo lavoro.
    Inoltre il sistema capitalistico risultava essere alquanto instabile perché si creava in esso una forte divaricazione tra l’offerta e la domanda, cioè tra la produzione sempre maggiore di merci e la capacità di consumo del mercato, che era spesso limitata e inadeguata, anche perché i salari si mantenevano a livelli molto bassi. Si determinavano così le crisi di sovrapproduzione, che potevano prolungarsi nel tempo e che non si superavano in modo meccanico e naturale, come sostenevano i liberisti.
    Per correggere queste tendenze negative e le ingiustizie connesse, il Sismondì ritenne necessario l’intervento equilibratore dello Stato e propose anche l’adozione di misure di carattere socialistico oppure il ritorno a forme di economia precapitalistica, soprattutto in agricoltura.
    I primi veri esponenti del socialismo furono in particolare Owen, Saint-Simon, Fourier e Proudhon.
    Dell’inglese Owen bisogna ricordare in particolare il suo tentativo di costruire una fabbrica modello e anche una specie di nuova comunità ispirata ai principi della solidarietà e della giustizia (New Armony).
    Come proprietario di una filanda a New Lanarck, egli si rese conto che il lavoro di fabbrica poteva essere fonte di abbrutimento, di sfruttamento, di miseria: così cercò di umanizzare il lavoro dei suoi dipendenti, pagando salari più alti, riducendo gli orari di lavoro, finanziando scuole per gli operai e facendoli compartecipare agli utili dell’azienda ecc. Con le sue iniziative egli cercò così di dimostrare che il sistema industriale poteva andare incontro alle esigenze dei lavoratori senza danneggiare gli interessi degli imprenditori.
    Egli inoltre tentò di realizzare una comunità agricolo-industriale autosufficiente, basata sulla cooperazione e la solidarietà, in cui i produttori si scambiavano direttamente le merci valutate sulla base della quantità di lavoro prestata: questo esperimento fu tentato in America, dove venne fondata la comunità denominata New Armony, che però fallì.
    Del francese Fourier invece occorre ricordare soprattutto la sua critica del lavoro di fabbrica che, anziché valorizzare, reprimeva e negava le inclinazioni, la creatività e le capacità degli operai. Contro questa forma di organizzazione alienante, il Fourier teorizzò la creazione di nuove comunità produttive, chiamate falansteri, che avrebbero dovuto accogliere alcune centinaia di persone.
    In esse l’attività lavorativa doveva risultare attraente e soddisfacente, tanto che era prevista una divisione del lavoro basata sulla varietà e sulla rotazione delle mansioni, in modo da assecondare le inclinazioni naturali di ogni operaio.
    Nei falansteri inoltre la ricchezza prodotta non veniva collettivizzata ma veniva invece distribuita secondo criteri che tenevano conto del lavoro prestato e delle differenti esigenze e capacità individuali.
    Altra fondamentale figura del pensiero socialista della prima metà dell’Ottocento fu quella di Proudhon (1809-1865): egli scrisse un’opera divenuta presto famosa, dal titolo Che cos’è la proprietà?, in cui sostenne che la proprietà fosse sostanzialmente un furto.
    Essa infatti era la conseguenza di un rapporto di sfruttamento che nasceva dal fatto che le retribuzioni date agli operai non fossero corrispondenti al valore del lavoro prestato. Così una ristretta minoranza di proprietari sfruttava la stragrande maggioranza della popolazione e si arricchiva in modo spropositato.
    Contro questa ingiustizia, Proudhon non propose la collettivizzazione o la statalizzazione della proprietà, in quanto riteneva che il principio della proprietà fosse comunque importante per affermare la libertà dell’individuo e la sua autonomia rispetto allo Stato (senza proprietà l’individuo non sarebbe stato libero).
    Proudhon non credeva nell’efficacia dello sciopero e dell’azione politica e sindacale all’interno del sistema parlamentare e, sul piano economico, sostenne la necessità di estendere a tutti la proprietà, creando una sorta di comunità di autoproduttori. A questo scopo si fece promotore della costituzione di società cooperative e di mutuo soccorso, in cui capitale e lavoro non erano contrapposti ma si trovavano nelle stesse mani, ossia appartenevano ai soci-lavoratori.
    Nel pensiero di Proudhon il tema dell’uguaglianza si combinò strettamente con quello della libertà dei cittadini, tanto che egli vagheggiò una sorta di repubblica ideale caratterizzata da una anarchia positiva, in cui il singolo non fosse assoggettato a nessun potere statale oppressivo e in cui si realizzasse una libera cooperazione tra produttori, individui e famiglie.
    Molto complessa fu anche la figura del conte Claude Henri di Saint Simon (1760-1825).
    Egli studiò il processo di trasformazione economico-sociale in atto tra fine ‘700 e inizio ‘800 e giunse a formulare un piano di riforma complessiva della società, una riforma che avrebbe dovuto instaurare un nuovo sistema sociale in cui fosse stato possibile per tutti migliorare le proprie condizioni di vita materiale e spirituale, eliminando ogni forma di miseria e ignoranza.
    Il pensiero politico-sociale di Saint Simon si pose come elemento di continuità e di unione tra la cultura dell’illuminismo settecentesco e quella del nascente positivismo ottocentesco.
    Questo fatto è particolarmente evidente nella concezione del progresso storico, nella quale il pensatore francese sviluppò alcuni temi illuministici ed anticipò alcune teorie del positivismo (importante corrente filosofica e culturale dell’Ottocento).
    Nella storia si realizzava un progresso in quanto le epoche si susseguivano secondo un ordine che passava da un livello inferiore ad uno superiore: la direzione della storia quindi era quella che andava verso una sempre maggiore perfezione.
    In particolare nel processo si alternavano epoche organiche ed epoche critiche: le organiche erano caratterizzate dall’unità intorno ad un unico principio ideale che permeava tutta la società, quindi in esse predominava l’unione, la fede, l’autorità; le epoche critiche invece erano caratterizzate dalla divisione e dalla disgregazione dell’ordine precedente sotto la spinta di nuovi principi ideali, che si proponevano di dare un assetto migliore e superiore alla vita umana e sociale (per questo le epoche critiche erano età di passaggio).
    Secondo il Saint Simon l’ultimo periodo organico era stato quello medioevale mentre con la riforma protestante, la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese si era aperta una fase critica.
    Il tema del progresso sfociò in una vera e propria religione laica, una religione basata sia sul sentimento di una divinità intesa come principio immanente nella natura e nell’uomo sia sull’esaltazione dei poteri della scienza e della tecnica: lo scopo supremo di questa nuova religione era la realizzazione del benessere dell’umanità da raggiungere su questa terra.
    Le conoscenze tecnico-scientifiche rappresentavano lo strumento indispensabile attraverso cui attuare tale scopo.
    Sul piano socio-economico la riforma della società vagheggiata dal Saint Simon si fondava in particolare sull’organizzazione industriale dell’economia.
    Il pensatore francese fu un teorico e un sostenitore dell’industrialismo che, secondo lui, rappresentava un superamento dei sistemi economici precedenti, sistemi ingiusti e irrazionali in quanto chi produceva e lavorava era sottomesso al potere degli oziosi, ossia di quei ceti aristocratici parassitari che appunto vivevano nell’ozio e nel privilegio e sfruttavano il lavoro degli altri.
    Era ormai inconcepibile, per il Saint Simon, che le vecchie classi oziose e parassitarie (nobiltà, clero, esercito) potessero ancora dominare la società.
    Infatti la nuova società da lui immaginata doveva essere guidata dalle classi produttive, ossia dagli industriali, dagli scienziati, dai tecnici e dagli operai, ossia da tutti coloro che contribuivano a creare la ricchezza.
    Anche Saint Simon ammise il diritto alla proprietà privata, ma essa doveva derivare solo dal lavoro prestato (e non dallo sfruttamento del lavoro degli altri o dal puro e semplice possesso dei beni) e comunque doveva essere subordinata all’utilità comune.
    Inoltre, in questa società riformata e razionale, il potere politico avrebbe perso sempre più il proprio ruolo di guida e i conflitti socia li sarebbero gradualmente scomparsi.

     
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  2. metal generation
     
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    non so nemmeno che forum è questo ma grazie, mi stai togliendo un peso dalle balle che non ti immagini
    se potessi ti pagherei
     
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1 replies since 7/3/2009, 16:25   4026 views
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