LA DESTRA STORICA AL POTERE (1861-1876)

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  1. *la_debbO*
     
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    LA DESTRA STORICA AL POTERE (1861-1876) (sintesi)

    LA POLITICA INTERNA

    Nel momento in cui nacque, il Regno d’Italia contava circa 21 milioni di abitanti, l'80 % dei quali era costituito da contadini.
    L’Italia era un paese economicamente arretrato, assillato da una serie enorme di problemi. Dal 1861 al 1876 il governo fu nelle mani della Destra storica (l’aggettivo “storica” è stato usato per indicare la funzione che essa aveva svolto, ossia aver realizzato l’unità politica italiana), erede della politica cavouriana. Tra gli esponenti di spicco della destra storica sono da ricordare: Ricasoli, Minghetti, Rattazzi, Sella, Lanza.
    La Destra storica dovette affrontare e risolvere i grandi problemi relativi alla costruzione del nuovo Stato: bisognava unificare sul piano legislativo, economico, sociale, regioni ed aree geografiche che per secoli erano rimaste separate. In Italia inoltre mancavano quasi del tutto, specialmente nel sud, le infrastrutture economiche e civili (ospedali, scuole, strade, ferrovie ecc.), indispensabili per avviare quel decollo industriale di cui il paese aveva bisogno per uscire dal suo sottosviluppo. Ad aggravare la situazione c'era un tasso di analfabetismo elevatissimo (circa l'80%), tanto che la stessa lingua italiana era conosciuta ed usata da pochi. In particolare la destra storica dovette affrontare questi problemi:

    - sottosviluppo economico generale: l’economia era prevalentemente agricola e in buona parte arretrata. Nel sud prevaleva il latifondo con le sue caratteristiche ancora semifeudali: terreni abbandonati o coltivati solo in modo estensivo, proprietari assenteisti (= interessati solo a riscuotere le rendite ma non a fare investimenti e miglioramenti), contadini poveri, per lo più affittuari.
    Solo in alcune aree limitate si erano sviluppate colture praticate secondo metodi intensivi e moderni (vite, olio). I governi della Destra non attuarono alcuna riforma del latifondo e non incentivarono lo sviluppo, tanto che la condizione dei contadini del sud, dopo l’unità, peggiorò.
    Nel centro-nord invece si era già sviluppata un'agricoltura di tipo capitalistico,relativamente avanzata. La struttura industriale italiana era anch’essa limitata ad alcuni settori e ad alcune aree geografiche ed era quindi del tutto inadeguata rispetto alle necessità della nazione: il settore più sviluppato era quello tessile (seta, cotone, lana) ma erano presenti anche industrie meccaniche (armi, strumenti agricoli), siderurgiche (Falck, Ansaldo) e minerarie (ferro, zolfo, piombo, zinco). Si trattava di un’industria ancora molto legata all'agricoltura, nel senso che utilizzava spesso contadini assumendoli come lavoratori stagionali.

    - Unificazione legislativa ed amministrativa: gli Stati preunitari avevano leggi e strutture amministrative molto differenti e pertanto bisognava unificarle. Nel fare ciò fu adottato un sistema rigidamente centralistico che eliminò tutte le differenze e non tenne conto delle diverse esigenze locali; la ragione di questa scelta, che concentrò tutto il potere nelle mani del governo centrale, risiedeva nel timore che il nuovo Stato potesse disgregarsi da un momento all’altro.
    Si decise così di estendere a tutta l’Italia la legislazione e la struttura amministrativa
    piemontese (si dirà che l’Italia fu “piemontizzata”). L’unificazione amministrativa fu attuata
    soprattutto in due fasi: una prima, con la legge del 1865, e una seconda, con la legge del
    1888.
    L'Italia fu divisa in province e comuni: i sindaci, fino al 1888, furono nominati dall’alto (non eletti); un notevole potere avevano inoltre il prefetto, che rappresentava nelle province lo Stato centrale, e il questore, capo delle forze dell'ordine.

    - Problema del deficit statale: il nuovo Stato si era accollato tutti i debiti degli Stati preunitari e ciò aggravò la situazione del bilancio, che risultava già pesante, cioè passiva. Inoltre lo Stato doveva spendere enormi somme per creare quelle strutture amministrative, burocratiche e militari che erano del tutto carenti.
    Per risolvere questo problema la Destra storica attuò una politica tendente da un lato a ridurre al massimo le spese e dall’altro ad aumentare la pressione fiscale. La Destra, espressione politica dei ceti possidenti, decise di far gravare quasi tutto il peso del fisco proprio sulle classi popolari più umili, aumentando le imposte indirette sui consumi di massa (grano, prodotti alimentari ecc.) anziché le imposte dirette (sui redditi), che avrebbero colpito i possidenti.
    In questo contesto fu approvata la famigerata tassa sul macinato del 1868, che colpì direttamente il consumo del pane e dei cereali, su cui si basava gran parte dell’alimentazione popolare. La tassa sul macinato provocò numerose rivolte popolari nelle città e nelle campagne, rivolte che furono represse con la forza. Con questa politica economica, estremamente dura e rigorosa, la Destra storica riuscì tuttavia a raggiungere, nel 1875, il pareggio del bilancio statale.

    - Il brigantaggio: dal 1861 al 1865 in molte zone dell'Italia meridionale si sviluppò una rivolta sociale violenta ad opera dei cosiddetti briganti.
    Le diverse bande di briganti che operarono dalla Calabria fino all’Abruzzo erano formate da ex soldati borbonici, da mercenari stranieri, da criminali comuni e malavitosi e da contadini miserabili che, spinti dall’indigenza estrema, si ribellarono contro il nuovo Stato, da essi avvertito come un potere ostile ed estraneo.
    Il brigantaggio fu dunque l’espressione drammatica di una condizione di grave disagio sociale delle plebi contadine e sottoproletarie del sud, la cui situazione economica, dopo l'unità, era peggiorata: la terra, anziché ai contadini, andò a vecchi e nuovi padroni, in quanto i terreni ecclesiastici messi in vendita dallo Stato furono acquistati a buon prezzo dai latifondisti tradizionali e dai nuovi proprietari di estrazione borghese. I coltivatori diretti non ebbero nulla poiché lo Stato non attuò alcuna riforma agraria, ma anzi accentuò la pressione fiscale (sono gli anni in cui fu introdotta la tassa sul macinato, in base alla quale ad ogni quantità di cereali da macinare bisognava pagare un determinato tributo); inoltre venne istituita la leva militare obbligatoria (che non c’era nel regno borbonico), che sottraeva braccia al già duro e poco redditizio lavoro dei campi.
    I briganti erano organizzati in bande che si nascondevano nelle campagne e nelle zone montuose, da cui partivano per assaltare paesi, caserme, uffici statali, uffici comunali oppure per operare sequestri, furti ecc. Ogni banda aveva un suo capo.
    “Dietro” i briganti operavano e tramavano tra l’altro i legittimisti borbonici (i quali crearono i cosiddetti “Comitati” borbonici), che intendevano restaurare il vecchio Regno delle Due Sicilie, e una parte della Chiesa cattolica, ostile allo Stato laico e liberale che aveva distrutto lo Stato pontificio (non a caso l’ultimo re borbonico, Francesco II, si era rifugiato a Roma). Sembra che lo stesso Napoleone III, divenuto difensore di quello che rimaneva dell’ex Stato pontificio, non fosse estraneo agli aiuti politici e militari che in vario modo vennero dati ai briganti: egli riteneva che il Regno d’Italia costituisse un impedimento alla sua politica di egemonia nel Mediterraneo e sperava di poter ripristinare il Regno delle Due Sicilie insediando in esso Luciano Murat, un discendente del famoso Gioacchino Murat, maresciallo di Napoleone I.
    Di fronte alla pericolosa diffusione del brigantaggio, l’unica risposta dello Stato italiano fu di tipo repressivo e militare: fu varata una legge (la legge Pica) che mandò l’esercito e che instaurò il terrore, imponendo una repressione che tollerava esecuzioni sommarie e violenze di ogni tipo soprattutto sulle donne dei briganti. Il cosiddetto “grande brigantaggio” andò dal 1861 al 1865, ma forme di ribellione sopravvissero anche negli anni successivi, benché in dimensione più limitata.
    A favorire il suo progressivo esaurimento ci fu il fenomeno dell'emigrazione. Negli ultimi decenni dell’800 infatti alcuni milioni di contadini abbandonarono l'Italia diretti soprattutto verso l’America: si trattò di un vero e proprio esodo, che però costituì a suo modo una valvola di sfogo per la drammatica situazione sociale del meridione e di altre aree depresse d’Italia (Veneto).

    LA POLITICA ESTERA

    Come abbiamo detto, l’unità d’Italia raggiunta nel 1861 era incompleta: mancavano ancora il Lazio, il Veneto ed il Trentino. Pertanto il problema principale della politica estera dei governi della Destra storica fu il completamento dell’unità nazionale. L’annessione del Veneto avvenne nel 1866 con la III Guerra d’indipendenza.
    L’Italia si alleò alla Prussia di Bismarck, che aveva scatenato una guerra contro l’Austria, in cui vedeva un ostacolo alla formazione del II Reich tedesco. La guerra per l’Italia fu piuttosto deludente da un punto di vista militare (sconfitte di Lissa e Custoza): tuttavia, sfruttando le vittorie prussiane, l’Italia ottenne il Veneto.
    Più complessa era la questione romana, in quanto essa implicava la fine del secolare potere temporale del papa. Fin dal 1861 truppe francesi garantivano l’indipendenza dello Stato pontificio. Il governo italiano era quindi bloccato dal deciso rifiuto di Napoleone III, che si ergeva a difensore di quello che rimaneva dello Stato della Chiesa.
    Nel 1864, con la Convenzione di settembre, stipulata con la Francia, la capitale d’Italia fu trasportata a Firenze, ma per il governo italiano ciò costituì solo una mossa tattica, in attesa di un momento più propizio. Ci furono anche dei tentativi di conquista militare condotti da Garibaldi, che cercò di aggirare i giochi diplomatici. Ma nel 1862 (in Aspromonte) i garibaldini furono fermati dall’esercito italiano, mandato urgentemente per bloccare l’iniziativa, che avrebbe potuto provocare un conflitto tra l’Italia e la Francia, mentre nel 1867 (a Mentana, un comune in provincia di Roma) essi furono fermati e sconfitti da truppe francesi e pontificie. La questione romana fu risolta definitivamente nel 1870, all’indomani della grave sconfitta militare francese ad opera della Prussia, sconfitta che travolse Napoleone III ed il suo Secondo Impero. Così, caduto Napoleone III, l’Italia ebbe via libera e, nel settembre 1870, occupò Roma.
    Nel 1871 Roma divenne capitale: il Papa (Pio IX) si rinchiuse nei palazzi del Vaticano e non riconobbe il nuovo Stato italiano, anzi lo considerò usurpatore. Da parte sua il governo italiano emanò unilateralmente la Legge delle Guarentigie (1871), attraverso cui regolò autonomamente la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa: in essa fu ribadito il principio liberal-cavouriano sintetizzato nella formula “libera Chiesa in libero Stato”; alla Chiesa cattolica fu riconosciuta la piena libertà di culto, fu garantita la extraterritorialità (quindi la sovranità) dei palazzi del Vaticano, fu assegnata una indennità annua (che il papa rifiutò).
    Per tutta risposta Pio IX emanò il famoso “non expedit”, un documento con cui di fatto vietò ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica, imponendo loro di non presentarsi né come elettori né come eletti (il conflitto tra Vaticano e Stato italiano fu risolto definitivamente solo nel 1929 quando, con i Patti Lateranensi, avvenne il reciproco riconoscimento). Nei quindici anni del suo governo la Destra, in politica estera, mantenne un atteggiamento di estrema cautela e si mosse fondamentalmente nell’orbita politica della Francia.


    PONTEFICI DEL XIX SECOLO

    PIO VII
    PIO VIII
    GREGORIO XVI
    PIO IX
    LEONE XIII




     
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