RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA E AGRICOLA NEL XVIII SECOLO (sintesi)

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    RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA E AGRICOLA NEL XVIII SECOLO (sintesi)

    LA RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA

    Il XVIII secolo fu caratterizzato da quella che gli storici hanno chiamato rivoluzione demografica, in quanto, a partire dal 1720 circa, la popolazione europea e non solo europea cominciò a crescere e questa tendenza, nonostante varie oscillazioni, non si invertì più.
    Numerosi furono i fattori che determinarono questo evento epocale. Tra essi ebbe un peso sicuramente decisivo la quasi scomparsa della peste dall’Europa.
    Dal XIV secolo in poi la peste era stata un vero e proprio flagello, un flagello che si era ripresentato a intervalli di tempo nemmeno troppo lunghi e che aveva lasciato dietro di sé una lunga scia di morti.
    Essa era diventata una malattia endemica, nel senso che il virus, anche quando non era particolarmente attivo, era comunque presente nel territorio.
    Bastava un evento come la guerra e l’infezione si diffondeva e diventava virulenta. Fu quello che accadde ancora durante il XVII secolo.
    Infatti gli eserciti che attraversarono e devastarono l’Europa, soprattutto durante la famigerata Guerra dei 30 anni, furono, come sempre, veicolo di infezioni varie, tra cui anche la peste (ad esempio la peste che colpì Milano nel 1630, che uccise almeno la metà dei suoi abitanti, fu portata dai Lanzichenecchi tedeschi).
    L’ultima grave ondata di questo morbo si ebbe nel 1647-48: tuttavia, nonostante la gravità, non furono più toccati i livelli catastrofici della terribile peste del 1347-1351.
    Con il ‘700 la situazione cambiò in modo decisamente positivo: è vero che anche in questo secolo abbiamo la diffusione di alcuni gravi focolai, come ad esempio quello di Marsiglia e di Tolone nel 1720, quello di Messina nel 1743, e quello di Mosca nel 1771, ma si trattò comunque di situazioni isolate, limitate e sporadiche, non paragonabili alle grandi e terribili pandemie del passato.
    Pertanto, intorno alla metà del ‘700 circa, la peste e alcune altre gravi malattie infettive stavano diventando ormai solo un brutto ricordo.
    Sulle cause della scomparsa della peste sono state avanzate varie ipotesi, come ad esempio l’influenza della piccola glaciazione seicentesca (notevole abbassamento delle temperature medie), oppure l’arrivo dal nord di una nuova specie di topo, che avrebbe eliminato il famigerato topo nero, portatore del virus del terribile morbo.
    Sicuramente erano migliorate nel frattempo le condizioni igieniche e alimentari complessive delle popolazioni europee e gli eserciti non si abbandonavano più come in passato al saccheggio e alla devastazione dei territori.
    In questi stessi anni fu trovato un sistema per sconfiggere il vaiolo, altro terribile morbo.
    In Inghilterra fu sperimentato il sistema della inoculazione, una sorta di vaccino, anche se non era ancora un vero e proprio vaccino.
    A fine secolo il medico inglese E. Jenner inventò la pratica della vaccinazione antivaiolo, che si diffuse rapidamente.
    Con la scomparsa della peste (e di altre malattie) fu eliminato uno dei maggiori fattori di mortalità operanti nel passato, un fattore che aveva inciso ancora nel corso del XVII secolo, determinando il sostanziale ristagno della popolazione europea.
    Riportiamo uno schema che esemplifica a grandi linee l’andamento demografico a partire dall’XI secolo:


    - 1000-1200: crescita notevole
    - 1300-1450: crollo demografico
    - 1450-1590: crescita
    - 1590-1690: stagnazione
    - 1690-1720: diminuzione
    - dal 1720 circa in poi crescita costante


    Come si può notare, dopo il clamoroso crollo demografico del XIV secolo, causato in buona parte dalle terribile peste nera (la popolazione europea diminuì di circa un terzo), l’andamento demografico ricominciò a salire intorno alla metà del ‘400 e continuò a crescere fino all’ultimo decennio del XVI secolo. Tuttavia il ‘600, come abbiamo avuto modo di vedere, fu ancora un secolo difficile e travagliato, in cui operarono contemporaneamente i tre fattori che da sempre provocavano la diminuzione o, nella migliore delle ipotesi, la stagnazione (= né diminuzione né crescita) della popolazione: le guerre, le pestilenze, le carestie.
    Comunque, nonostante la presenza e l’incidenza di tali fattori, la popolazione si mantenne più o meno stabile, almeno fino al 1690.
    Infatti, secondo alcuni studi recenti, solo nel periodo 1690-1720 circa si sarebbe registrato un effettivo calo demografico, in quanto in quegli anni continuarono ad agire e si acuirono alcuni fattori negativi, come ad esempio la diffusione di altre malattie infettive e soprattutto le carestie.
    In particolare si verificarono almeno due gravissime carestie, quella del 1693 e quella del 1709, che, alternandosi ad annate caratterizzate da raccolti mediocri, avrebbero provocato, come si diceva, un calo demografico rispetto al 1690.
    Tuttavia, intorno al 1720, la popolazione europea si aggirava sui 105-110 milioni di abitanti.
    A partire da questo momento, prese avvio un processo di incremento demografico generale e costante, che non si interruppe più e che riguardò non solo l’Europa occidentale e quella orientale ma anche altri continenti, come l’Asia e l’America.
    Questa tendenza demografica positiva portò al raddoppio della popolazione europea in circa 100 anni e, come già accennato, divenne un fenomeno irreversibile poiché, contrariamente a quanto era avvenuto in passato, non si verificarono più fasi critiche di regressione.
    Gli storici hanno rilevato che la caratteristica dominante dell’incremento iniziato intorno al 1720 fu costituita sostanzialmente dalla diminuzione del tasso di mortalità e non invece da un incremento della natalità (solo in alcune aree, come l’Inghilterra, si riscontrò un abbassamento dell’età matrimoniale e quindi un conseguente aumento della natalità).
    Prima dell’avvento dell’età industriale vera e propria, il precario equilibrio demografico era dato dalla combinazione di due fattori:

    a) tassi di natalità non molto elevati;
    b) tassi di mortalità costantemente elevatissimi, con frequenza di punte catastrofiche.

    L’interazione di questi due fattori provocava a sua volta due effetti molto significativi:

    a. la breve durata media della vita;
    b. la bassa età media della popolazione.

    Infatti le difficoltà e la precarietà delle condizioni di esistenza (igiene, lavoro, alimentazione, cure mediche ecc.) facevano sì che la vita media si attestasse intorno ai 35-40 anni.
    Inoltre, data l’elevata mortalità e un più o meno costante tasso di natalità, gli abitanti dell’Europa preindustriale erano molto più giovani di oggi (l’età media della popolazione era di circa 25 anni).
    Se dunque, a partire dal 1720, la natalità non aumentò sensibilmente, ma diminuì invece notevolmente la mortalità, a quali fattori generali bisogna attribuire tale riduzione della mortalità, da cui si originò la rivoluzione demografica settecentesca?
    La risposta, abbastanza scontata, è che migliorarono le condizioni di vita complessive: quindi alimentazione, abitazione, lavoro, igiene, cure mediche ecc.
    Questo miglioramento però fu provocato a sua volta dall’incidenza di due fattori decisivi e concomitanti:

    a) il miglioramento climatico
    b) la rivoluzione agricola

    A) IL MIGLIORAMENTO CLIMATICO

    Nel corso del 1700, come abbiamo accennato, si registrò un sensibile aumento della temperatura media della Terra, dopo che nel secolo precedente si era verificata invece la cosiddetta piccola glaciazione; questo miglioramento del clima fece sentire i suoi effetti benefici direttamente sull’agricoltura.
    Tale fattore quindi agì positivamente in tutti i continenti e questo spiegherebbe perché l’incremento demografico avrebbe interessato anche l’Asia e l’America.

    B) LA RIVOLUZIONE AGRICOLA

    A proposito del XVIII secolo, gli storici hanno parlato di una rivoluzione agricola: nell’Europa occidentale si ebbero infatti notevoli e significativi progressi tecnici e sociali.
    Escludendo alcune zone dell’area mediterranea, come l’Italia meridionale e la Spagna, e l’Europa orientale, dove i sistemi agricoli rimasero sostanzialmente inalterati in quanto ancora basati prevalentemente sulla monocoltura cerealicola estensiva e sul latifondo, nel resto dell’Europa occidentale si verificò un processo di profonda trasformazione.
    In particolare si registrarono tre importanti fenomeni:
    a) diffusione di nuove piante alimentari, come la patata ed il mais; queste piante attecchivano facilmente, richiedevano poca cura ed il loro costo era basso.
    Per la popolazione europea del ‘700 il consumo delle patate e del mais fu decisivo non solo perché esse contribuirono a migliorare il regime alimentare medio ma anche e soprattutto perché servirono a fronteggiare più efficacemente le crisi di carestia che furono comunque frequenti anche in questo secolo;

    b) notevole aumento della superficie coltivata: la crescita della popolazione provocò un incremento della domanda alimentare, per cui fu necessario non solo coltivare nuove piante ma anche estendere la superficie coltivata. D’altra parte la stessa coltivazione delle nuove piante spingeva nella direzione del dissodamento e della messa a coltura di nuovi terreni;

    c) nuove tecniche di coltivazione ed incremento della produttività del suolo. In molte aree europee si cominciò a superare la medievale rotazione triennale dei terreni, sostituendola con cicli più lunghi, i quali comportavano una tendenziale eliminazione del maggese (= terreno messo a riposo), a cui venne sempre più spesso preferita la coltivazione di nuove piante foraggere, che avevano un alto rendimento.
    A sua volta lo sviluppo della produzione del foraggio comportò un sensibile aumento dell’allevamento del bestiame, che ebbe positivi riflessi sul regime alimentare della gente (incremento del consumo di carne e latticini); notevoli progressi furono compiuti nella selezione delle razze e del bestiame. L’allevamento inoltre contribuì in misura notevole anche al miglioramento della fertilità e della produttività dei terreni.

    Si innescò quindi un circolo virtuoso che consentì all’agricoltura europea di raddoppiare, nel corso del ‘700, la sua capacità produttiva. Questo grande sviluppo agricolo suscitò anche l’interesse di molti studiosi, i quali cominciarono ad affrontare da un punto di vista scientifico i diversi aspetti dell’agricoltura: nacque così nel ‘700 la scienza agricola moderna o agronomia; numerosi testi di tale disciplina si diffusero in Europa nella seconda metà del XVIII secolo.

    IL CASO INGLESE: FINE DELL’OPEN FIELD

    Significativo in questo contesto fu il caso dell’Inghilterra, che prima degli altri paesi si avviò verso un’agricoltura avanzata e moderna.
    In effetti in Inghilterra, già dal 1500 e poi per tutto il secolo successivo, era iniziato e si era consolidato un processo di trasformazione in senso capitalistico della vecchia agricoltura feudale.
    Già nel XVI secolo erano cominciate le cosiddette recinzioni (enclosures), con le quali fu gradualmente e definitivamente eliminato il sistema medievale dell’open field.
    Quest’ultimo consisteva sia nell’uso dei terreni demaniali (= comuni, appartenenti a tutti), suddivisi in piccole unità di coltivazione, da parte dei contadini poveri del villaggio, sia nella possibilità di utilizzare, per il pascolo o la raccolta della legna e di altri prodotti spontanei, i terreni dei privati messi a riposo o incolti.
    Tra il 1760 e il 1819, con centinaia di decreti, il parlamento inglese, in cui dominava proprio il ceto dei proprietari, autorizzò la recinzione di pascoli comuni e di terre incolte, che vennero così sottratte alle comunità dei villaggi rurali che le usavano da secoli.
    I grandi e medi proprietari terrieri inglesi cominciarono pertanto a recintare non solo i propri terreni ma anche quelli comuni.
    Così facendo essi misero in crisi il vecchio sistema dell’open field, su cui si era basata l’agricoltura inglese per parecchi secoli. Questi proprietari però, diversamente dalla maggioranza dei latifondisti europei, che non si curavano affatto dei loro fondi, limitandosi per lo più a riscuotere una rendita comunque cospicua dai loro sterminati possedimenti, cominciarono a sfruttare i terreni in modo sempre più produttivo, razionale e redditizio, facendo degli investimenti e cercando di migliorare le tecniche di lavoro, di sistemazione, di irrigazione, di coltivazione ecc.
    In questo modo la produttività dell’agricoltura inglese aumentò sensibilmente.
    Si andò così delineando un nuovo sistema agricolo di tipo capitalistico, moderno e avanzato, basato sulle due figure sociali del proprietario imprenditore e del contadino salariato (dipendente pagato con un salario, quindi non più affittuario o piccolo coltivatore).
    Questo processo, iniziato come si è detto già nel 1500, giunse a compimento nel 1700, determinando la parziale scomparsa del contadino povero del villaggio, piccolo coltivatore, che fu costretto a trasformarsi o in salariato agricolo (o anche in bracciante, ossia lavoratore stagionale) o in proletario urbano, cioè in operaio nella nascente industria inglese (Rivoluzione industriale inglese, II metà del XVIII secolo).
    Infatti, secondo la ben nota interpretazione di Karl Marx, teorico del socialismo del XIX secolo, fu proprio l’espulsione dei contadini dalle campagne, in seguito ai suddetti processi di trasformazione, che contribuì a creare gran parte di quella nuova classe proletaria che fu utilizzata nelle prime fabbriche inglesi.
    Secondo studi più recenti invece questa tesi di Marx non sarebbe esatta in quanto la manodopera agricola aumentò e non diminuì e i piccoli coltivatori inglesi espulsi dalle enclosures non si trasformarono in proletari urbani ma divennero soprattutto salariati agricoli.








    A.G.N.






















     
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