Gattopardo analisi

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    LA SICILIA NEL 1860
    1860: I democratici con la spedizione garibaldina in Sicilia rilanciarono con successo la via rivoluzionaria per il raggiungimento dell’unità italiana. L’occasione per la conquista garibaldina del Regno delle Due Sicilie, dove dal 1859 regnava il giovane Francesco II, si presentò in seguito al fallimento dell’insurrezione di Palermo del 4 aprile del 1860. Il moto fu infatti facilmente domato, ma l’agitazione si diffuse nelle campagne, mentre un gruppo di intellettuali di orientamento democratico, tra cui Francesco Crispi e Rosolino Pilo, chiesero a Garibaldi di intervenire militarmente in Sicilia. Ebbe così inizio la preparazione materiale della spedizione dei mille volontari garibaldini, che all’alba del 6 maggio 1860 salpò da Quarto, in Liguria, e l’11 maggio approdò a Marsala (inizio del romanzo).




    LE NOTAZIONI DI SINTESI CHE TOMASI PREMETTE A CIASCUN CAPITOLO
    Eccole nell'ordine:
    CAP. I : Il rosario e la presentazione del principe - il giardino e il soldato morto - le udienze reali - la cena - in vettura per Palermo - l’andata da Mariannina - il ritorno a San Lorenzo - la conversazione con Tancredi - in Amministrazione: i feudi e i ragionamenti politici - in osservatorio con padre Pirrone - distensione al pranzo - Don Fabrizio e i contadini - Don Fabrizio e il figlio Paolo - la notizia dello sbarco e di nuovo il rosario.
    CAP. II : il viaggio per Donnafugata - precedenti e svolgimento del viaggio - l’arrivo a Donnafugata - in chiesa - Don Onofrio Rotolo - la conversazione nel bagno - la fontana di Anfitride - la sorpresa prima del pranzo - il pranzo e le varie reazioni - Don Fabrizio e le stelle - la visita al monastero - ciò che si vede da una finestra.
    CAP III : la partenza per la caccia - i fastidi di Don Fabrizio - la lettera di Tancredi - la caccia e il Plebiscito - Don Ciccio Tumeo inveisce - come si mangia un rospo - epiloghetto.
    CAP IV : Don Fabrizio e Don Calogero - la prima visita di Angelica - l’arrivo di Tancredi e Caviraghi - l’arrivo di Angelica - il ciclone amoroso - il rilassamento dopo il ciclone - un piemontese arriva a Donnafugata - un giretto in paese - Chevalley e Don Fabrizio - la partenza all’alba.
    CAP. V: L’arrivo di padre Pirrone a S. Cono - la conversazione con gli amici e l’erbario - i guai familiari di un gesuita - la risoluzione dei guai - la conversazione con "l’uomo d’onore" - Il ritorno a Palermo.
    CAP VI: Andando al ballo - il ballo: ingresso di Pallavicino e dei Sedàra - il malcontento di Don Fabrizio - in biblioteca - Don Fabrizio balla con Angelica - la cena; la conversazione con Pallavicino - il ballo appassisce, si ritorna a casa.
    CAP VII: La morte del principe.
    CAP VIII: La visita di Monsignor Vicario - il quadro e le reliquie - la camera di Concetta - la visita di Angelica e del senatore Tassoni - il Cardinale: la fine delle reliquie - Fine di tutto.

    TRAMA
    Nel maggio 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini in Sicilia, Don Fabrizio, Principe di Salina, un aristocratico molto colto, dedito a studi di astronomia, assiste con distacco e con malinconia alla fine del suo ceto. La classe aristocratica capisce che è ormai vicina la fine della sua stessa supremazia, infatti approfittano della nuova situazione politica gli amministratori e i mezzadri, nuova classe sociale in ascesa. Don Fabrizio, appartenente ad una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote Tancredi, che, combattendo nelle file garibaldine, cerca di controllare gli esiti degli eventi volgendoli a proprio vantaggio: "Se si vuole che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi".
    Quando, come tutti gli anni, il Principe con tutta la famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Don Calogero Sedara, un borghese di umili origini che si è arricchito ed ha fatto carriera in campo politico: è questo il simbolo della nuova classe dirigente che prende il posto della vecchia aristocrazia.
    Tancredi, che in precedenza aveva manifestato qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del Principe, volge ora le sue attenzioni verso Angelica, figlia di Don Calogero, che riuscirà a sposare, attratto non solo dalla sua vistosa bellezza, ma anche dal suo notevole patrimonio.
    Altrettanto significativo è l’arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno. Il Principe rifiuta sentendosi legato al "mondo vecchio" e immobile della sua Sicilia e non crede nella possibilità di un progresso storico che porti un rinnovamento.
    La sua vita continua monotona e sempre più sconsolata, fino alla morte che lo coglie in una anonima stanza di albergo nel 1883, di ritorno da un viaggio a Napoli, intrapreso per sottoporsi a visite mediche .
    Nella sua casa resteranno, povere custodi di inutili memorie, le tre figlie nubili, inasprite da un’esistenza chiusa e solitaria; il romanzo si conclude nel 1910.

    | 26 Ottobre 1998
    Materiale per un nuovo capitolo del ''Gattopardo'', di cui si erano perse le tracce, e' stato ritrovato in casa di un nipote di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l'autore del romanzo italiano piu' venduto del Secolo. La scoperta e' stata annunciata, a Torino, dal figlio adottivo dello scrittore siciliano, Gioacchino Lanza Tommasi, nel corso della presentazione di un suo libro, ''Biografia per immagini di Giuseppe Tomasi di Lampedusa'', edito da Sellerio. Il materiale si trovava nella casa romana di Giuseppe Biancheri, nipote dell'autore del ''Gattopardo'' e fratello dell'ambasciatore Boris Biancheri, che ha partecipato alla presentazione torinese, insieme con Lorenzo Mondo. ''Il progetto di capitolo era conservato in una cartellina con la scritta 'materiale attorno al Gattopardo' - ha detto Gioacchino Lanza Tomasi - e riportava il titolo 'Canzoniere di casa Salina'. E' un capitolo incompiuto e doveva essere costituito da 17 sonetti, ma ne sono stati scritti solo due, oltre a una ode e a un'introduzione. Attraverso i sonetti il principe Fabrizio rivelava il suo amore per Angelica''. La presentazione di "Biografia per immagini" rientra nelle iniziative del Teatro Stabile di Torino per i 40 anni della pubblicazione del Gattopardo. Anche un dibattito con il procuratore Gian Carlo Caselli, Gioacchino Lanza Tomasi, padre Ennio Pintacuda, Marcello Sorgi e Carlo Feltrinelli. Lo Stabile torinese ha anche realizzato una ''lettura integrale'' del romanzo, messa in scena al Teatro Carignano per 15 giorni. La ''Biografia per immagini'' di Lanza Tomasi contiene una ricca documentazione fotografica che rivela il mondo privato dell'intellettuale siciliano, appartato e sconosciuto fino alla morte, avvenuta a Roma nel Luglio del '97 (il Gattopardo fu pubblicato l'anno dopo). Vi sono mostrati i cimeli ed i ritratti degli antenati, l'album di famiglia, i viaggi, le dimore distrutte e lo sfondo siciliano. ''Libro felice e di grande eleganza'', l'ha definito Boris Biancheri, che ha ricordato come il Gattopardo, rifiutato dall'Einaudi perche' considerato un libro ''borghese'' (poi pubblicato da Feltrinelli) sia ancora al centro di un dibattito vivacissimo. Ne e' un esempio l'uscita, in estate, del saggio ''L'intimita' e la storia. lettura del Gattopardo'', scritto da Francesco Orlando, che fu allievo di Tomasi di Lampedusa e batte' a macchina, sotto dettatura, la prima stesura del romanzo. Orlando sostiene la grandezza dell'opera contro le condanne prununciate dai critici marxisti negli anni Sessanta. ''Nel '58 - ha detto Tomasi Lanza - usci' anche il dottor Zivago, che oggi non si ristampa piu', al contrario del Gattopardo, divenuto in molti Paesi esteri un modello della cultura occidentale''.






    GIUSEPPE TOMASI di LAMPEDUSA E IL GATTOPARDO
    L'uscita nel 1958 del romanzo Il Gattopardo creò uno dei maggiori casi letterari del dopoguerra: l'opera ebbe un eccezionale successo di pubblico, e nel 1959 ricevette il premio Strega. Il romanzo suscitò accese discussioni, tra chi lo considerava uno dei capolavori della narrativa contemporanea, e chi, specialmente da sinistra, lo vide come un'opera decadente e, addirittura, reazionaria.
    Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896-Roma 1957), di famiglia aristocratica, combattè nelle due Guerre Mondiali e trascorse gran parte della sua vita fuori dall'Italia. Appassionato lettore e studioso di letteratura inglese, si dedicò tardivamente alla scrittura iniziando a stendere Il Gattopardo a partire dal 1955.
    Il romanzo uscì dopo la morte dell'autore presso l'editore Feltrinelli, divenendo un best sellers della storia della letteratura italiana, anche grazie al mistero che circondava le origini dello scrittore.
    Quelli erano gli anni della crisi del neorealismo e le vicende della principesca famiglia del principe Fabrizio Salina, narrate nel quadro di una Sicilia immobile, malgrado la bufera garibaldina, sembravano proporre pericolose ideologie di fuga e di fatalistica rassegnazione. Se la cura ambientale e descrittiva autorizza il richiamo alla tradizione veristica, l'insistenza ossessiva sui simboli del disfacimento e dell'autodistruzione giustifica, invece, una lettura in chiave moderna de Il Gattopardo e della stessa imponente figura del protagonista.
    Il romanzo non poteva non attrarre il genio creativo di Luchino Visconti che nel 1963 consegnò agli schermi il film tratto dal libro. Sceneggiato dallo stesso Visconti, insieme a Suso Cecchi D'Amico, Enrico Medioli e Massimo Franciosa; fotografato da Giuseppe Rotunno, con i costumi di Piero Tosi e la musica di Nino Rota, Il Gattopardo si svolge in Sicilia nel 1860. Garibaldi sbarca in Sicilia, e alcuni membri della nobile casata dei Salina si uniscono alle truppe Garibaldine. Anche il principe Fabrizio vota a favore dell'annessione allo Stato Sabaudo, inoltre favorisce le nozze del nipote Tancredi con Angelica, figlia del rozzo Don Calogero. Mentre Tancredi si fa strada nel nuovo ordine sociale, il principe rifiuta il seggio di senatore perchè non crede alle possibilità di cambiamento della Sicilia. Resosi conto della fine di un'epoca e di un mondo, il principe di Salina si rassegna alla morte.
    Luchino Visconti comprese subito che la nostalgia dell'autore conteneva potenzialità progressiste, ossia una critica al trasformismo politico della classe dirigente, che si esprimeva nella celebre frase se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi. Visconti scoprì di essere in perfetta sintonia con Lampedusa, e nella traduzione cinematografica accentuò la polemica sulla frattura delle idealità post-risorgimentali, tentando una sintesi tra il realismo storico e le sfumature nostalgiche presenti nel romanzo.
    Il regista riuscì a far coincidere incredibile spettacolarità e sottile studio psicologico, contrapponendo le esibizioni dell'aristocrazia morente alla solitaria disillusione del protagonista.
    Il Gattopardo, pur non essendo uno dei momenti pù alti della carriera del regista, è da considerarsi uno dei capolavori del genere storico. Il film vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1963.


    IL GATTOPARDO






    Il Gattopardo: nostalgia o raccapriccio di un passato non tutto tramontato

    "Il Gattopardo rivela un maestro; il romanzo è innanzi tutto lirico, ma è anche un romanzo storico, perché l'autore vede e ci mostra lo svolgimento del proprio spirito, della propria psiche nella realtà delle vicende storiche, dando a ciascuno dei personaggi il risalto rappresentativo che esprima compiutamente il suo significato morale. I particolari inutili, di cronaca, scompaiono". Questa è la chiave di lettura di Goffredo Bellone, espressa nel saggio "La rivoluzione del Gattopardo" (1958). La definizione di "romanzo storico", assegnata "ante tempus" dalla critica all'opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, va colta con cautela. Essa, infatti, potrebbe indurci ad inscriverla nell'area tradizionale del romanzo ottocentesco, alla cui poetica in realtà, essa rimane sostanzialmente estranea.
    Basti prendere com'esempio Alessandro Manzoni, il quale afferma di " non volere inventare dei fatti per adattarvi dei sentimenti", ma di voler "spiegare tutto ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che essi hanno fatto"
    Giuseppe Tomasi, invece, cerca di parlare di un fatto storico, ma che può essere epocale, universale, per poi passare a descrivere gli stati d'animo, le reazioni di un siciliano sconfitto. E pertanto non possiamo parlare di romanzo storico, ma di un romanzo scritto ieri, che disserta di un oggi eterno. La stessa architettura del Gattopardo, rispetto all'Ottocento, presenta un libero e inconsueto disegno narrativo, una sequenza d'episodi i quali, pur facendo capo ad un personaggio principale, potrebbero considerarsi come aventi ciascuno una vita autonoma.
    E' bene, a questo punto, precisare che cosa s'intende per "romanzo storico": non un romanzo che tratti avvenimenti collocati in un determinato periodo storico, riconoscibile per date, personaggi realmente vissuti ed imprese ed azioni che abbiano infinito sul corso della storia, giacché saremmo ancora nel campo delle biografie romanzate o della semplice ricostruzione storica, fatta talvolta egregiamente dai giornalisti, i quali -come si sa - esercitano un preciso mestiere, che non si può confondere con quello dello scrittore che sia un poeta. E Tomasi di Lampedusa è un poeta di ben alto livello. Questa grandezza poetica, Bassani la individua molto bene:
    "Perfetta nelle sue pagine la narrazione, sotto la buccia di una narrazione di tipo ottocentesco, nasconde quello che è il carattere costante dell'ispirazione dello scrittore: morale e politica piuttosto che puramente artistica, nel senso dell'art pour l'arte. A differenza della poetica ottocentesca, lo straordinario interesse del romanzo non sta tanto nella trama, la quale s'identifica con la biografia di un nobile siciliano, il principe di Salina, don Fabrizio Corbera, sia pure incalzata e sollecitata da eventi tanto impegnativi e decisivi per l'unificazione italiana (le date vanno dal 1860 al 1883, anno della morte di don Fabrizio, al 1910, che segna la fine della dinastia dei Salina, nel cui stemma è un gattopardo), quanto piuttosto nel ricco e sottile gioco della complicata realtà interiore del protagonista, che nell'arte di Lampedusa, trova una limpida e balenante rappresentazione. Don Fabrizio è un personaggio affascinante, "immenso e fortissimo" , ma non un grande eroe; è un uomo che corteggia la morte privo d'illusioni. E Giuseppe Tomasi avrebbe sublimato quella figura nelle pagine del suo romanzo, tramandandola per sempre a memoria futura. Del patrimonio del grande avo don Fabrizio, lo scrittore avrebbe raccolto soltanto le briciole. Eppure la sua vita, dopo il successo del suo libro, generò una serie di leggende.Uno storico più pignolo degli altri non ha trovato alcuna conferma sulla laurea in Giurisprudenza conseguita a Torino, di cui tante volte G. Tomasi si era vantato con gli amici. A Torino il principe siciliano soggiornò, come risulta dal suo racconto "II professore e le sirene", che vi è ambientato, ma non sostenne alcun esame. Insofferente alle regole, di temperamento un pò pigro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa per tutta la vita sembra aver fatto solamente due cose: leggere e viaggiare.
    Il patrimonio ereditato, benché assottigliatesi nel tempo, gli consentiva di scorazzare a suo piacimento per l'Europa, senza legarsi ad alcun impegno di lavoro e, se da un lato, i beni si assottigliavano, la cultura si arricchiva. Siciliano nel midollo, europeo nello spirito, parlava inglese, francese e tedesco, conosceva lo spagnolo e sarebbe arrivato a leggere Tolstoy in russo. A Londra conobbe la baronessa Alessandra Wolff Stormersee con "una cotta di un intensità che può già dirsi senile" e la sposò. Da quel matrimonio non nacquero figli e Giuseppe V Tomasi fu l'ultimo dei "gattopardini" in ogni senso. Solo per assicurarsi un futuro al nome, adottò uno dei suoi allievi prediletti, Gioacchino Lanza di Mazzarino. Il 5 aprile del 1943, un bombardamento americano aveva raso al suolo il Palazzo Tomasi a Palermo. Per lui fu un gran colpo, perché lì era nato e vissuto: quelle antiche sale, anni dopo, avrebbero ispirato le pagine più malinconiche, ma anche più penetranti del romanzo. Il grande principe di Lampedusa, dopo la guerra, si ridusse a vivere con la moglie in una camera ammobiliata, che umiliava il suo orgoglio. Solo nel 1947 poté ricomprare il palazzo di Via Butera, dove era vissuto il bisnonno, futuro protagonista del libro. E qui G. Tomasi rimase fino alla vigilia della morte. Viaggiava di meno ora, ma leggeva di più. Solo dopo l'episodio di San Pellegrino Terme, dove aveva accompagnato il cugino Lucio Piccolo durante l'estate del '54 in occasione di un convegno letterario, nel quale Montale presentò i "Canti barocchi " del cugino, ebbe la spinta decisiva ad uscire dall'isolamento in cui per troppo tempo era rimasto rinchiuso, e non accontentandosi più di leggere soltanto, volle anche scrivere per mettere al mondo i fantasmi della sua mente. Scrisse la vita che si sentiva sfuggire di mano, la storia che lo stava colpendo alle spalle, vendicandosi in lui della sua classe: scrisse il "Gattopardo". E' di capitale importanza il periodo drammatico, cioè il contesto storico su cui scorre tutta la vicenda narrata: ci troviamo alla fine del Regno di Napoli. Il 21 ottobre 1860 il popolo delle province meridionali e della Sicilia votava per la formula del plebiscito: "II popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti". Era l'annessione immediata del Regno di Napoli a quello che era ancora il Regno di Sardegna. Ma gli esiti di questa "felice annessione", non furono così splendidi come ci si immaginava (o sperava): esplosione del brigantaggio, infiltrazione di agenti borbonici e legittimisti nel moto di rivolta dei braccianti e dei contadini poveri, borghesia meridionale che faceva appello all'intervento urgente dell'esercito piemontese, per ristabilire al più presto l'ordine e la sicurezza.
    I problemi aumentavano e con loro anche lo squilibrio economico-sociale che separava il Mezzogiorno dall'Italia Settentrionale: un divario difficile da risanare tra quelle che venivano già chiamate le "due Italie". E di questo disagio economico, sicuramente, la famiglia Tomasi ne fu colpita e coinvolta. Da qui l'esigenza del principe di scrivere un romanzo che descrivesse non solo la sua condizione esistenziale, ma la condizione di un popolo.
    Fin dal 1938 il principe aveva pensato ad una storia risorgimentale, una giornata del suo bisnonno a Palermo, mentre stavano arrivando le camicie rosse di Garibaldi. Poi erano venuti altri pensieri: la guerra, i problemi economici. Ma ora, animato dall'incontro con la letteratura italiana, gli antichi fantasmi risorgevano, gli dettavano il grande romanzo e la figura del suo antenato si profilava forte, al centro.
    Giulio IV Fabrizio Maria Tomasi, Vili principe di Lampedusa, IX duca di Palma di Montechiaro, pari di Sicilia, condensava in sé la gloria del passato e la rovina del futuro, in cui il suo ultimo erede, sapeva di rispecchiarsi compiutamente. Infatti, alla "storia di allora" (quella del bisnonno) veniva ad aggiungersi la "storia di ora" (la propria), più vera della prima: agli spunti storici di un secolo fa venivano a mescolarsi le esperienze personali che, pertanto, vennero anticipate ed attribuite al protagonista, soprattutto per quanto riguarda luoghi ed esperienze, in un contrappunto tra presente e passato che è uno degli aspetti emergenti del romanzo. CÌ vollero sei mesi per scrivere il primo capitolo; gli ci volle un viaggio a Palma di Montechiaro - dove non era mai andato - nell'estate del '55, per avere l'idea del seguito. Quando arrivò in quel paese, che Ì Tomasi avevano fondato e dove c'erano ancora tante dimenticate reliquie, fu accolto, con proprio sbalordimento, dal suono a distesa delle campane e dal "Tè Deum" in Duomo. Fu anche invitato nel convento fondato tre secoli prima da un altro Lampedusa, il Duca Santo, dove, avvalendosi di un privilegio editarlo, Tomasi entrò in clausura, fino a visitare la cella della sua antenata, la venerabile Crocifissa.
    Lo scrittore era uno spirito laico, ma profondamente interessato ai temi religiosi. Rimase colpito da quei riti e da quei luoghi, dove il motto "Spes mea in Dee est", campeggia ancora con forza. E riprese entrambi gli episodi nel suo romanzo: " (...) ma, come voleva l'antichissimo rito, gli altri, prima di mettere il piede a casa, dovevano ascoltare un Tè Deum nel Duomo" . "Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente al proprio arrivo la famiglia Salina andasse al monastero di Santo Spirito; (...) Ma, figlio mio (parlando con Tancredi), lo sai: io solo posso entrare qui; per gli altri è impossibile" .
    Di quel romanzo quasi nessuno sapeva nulla. L'autore ne leggeva le pagine a pochi intimi, i quali non sembravano fossero entusiasti, salvo la moglie-Solo Giuseppe Tomasi, nel suo disincanto, ci credeva. Quando il libro fu finito, lo dettò ad uno dei suoi allievi, Francesco Orlando, che lo batté a macchina in quattro copie: una andò alle Einaudi, una alla Mondadori. In entrambe le casi editrici il romanzo incontrò lo stesso oppositore: il siciliano Elio Vittorini, l'ultimo scrittore italiano in grado di capire quel libro, che così si espresse: "(...) non posso impormi di amare scrittori che si manifestino entro schemi tradizionali. Il Gattopardo avrei potuto amarlo come opera del passato che oggi fosse stata scoperta in qualche archivio". Si incaricò lui di scrivere a Tomasi per motivargli il proprio rifiuto. La lettera giunse al destinatario il 18 luglio 1957, quando all'autore, ammalato di cancro, non restavano che cinque giorni di vita. Il principe la lesse a Roma, dove lo avevano portato per tentare un'operazione impossibile con il professore Valdoni. "Peccato" disse semplicemente dopo aver appreso quella sentenza per lui più terribile della morte.
    Il Gattopardo si salvò per l'acume di Giorgio Bassani, che lavorava allora per la Feltrinelli, dove giunse la terza copia del dattiloscritto, anonima, da parte di Elena Croce.
    Bassani lesse le prime righe mentre saliva le scale; quando entrò in ufficio era già convinto di avere messo le mani su un libro straordinario: "Accanto a un libro come il Gattopardo qualunque altro rischia di scolorire".
    Ci vollero molte ricerche, risalendo tutti i passaggi seguiti dal testo, per conoscere il nome dell'autore ed apprendere che era morto da un anno. Con tutto il pessimismo siciliano, che conosce torti e ferite della sua terra, che sa scavare profondamente l'anima della Sicilia e le responsabilità dei siciliani, "il Gattopardo", qualificato romanzo "saggistico", serve all'autore per esprimere il suo giudizio amaro sulle conseguenze di quella "nottata di vento lercio" (la notte del plebiscito), durante la quale nel borgo di Donnafùgata, dimora estiva dei Salina, era nata l'Italia, ma era stata uccisa "la buona fede"dei siciliani a opera di quello "stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata" , alla piccola città fatta dai piccoli uomini si avvicenda il più vasto motivo di fermo, eterno fluire del mitico tempo siciliano.
    Nel dialogo con Chevalley, c'è tutta la filosofia del Gattopardo, una delle pagine più intense.
    "Dopo la felice annessione (....) le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista da proporre all'esame del Governo centrale ed eventualmente alla nomina regia e, come ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, principe".
    Ma la risposta del "Leone sazio e mansueto" (l1) non coincise con quella che si aspettava Chevalley; infatti don Fabrizio rispose: " Nello spettacolo di questo nostro tempo, c'è la possibilità di far risaltare i sentimenti per indagare quella Sicilia dolente e sfarzosa che fa i conti con la storia, dagli imani arabi ai piemontesi, ma anche con la propria anima, con quella "diversità" che racchiude il senso dell'essere siciliani "
    Ampiezza di visione storica, unita ad un'acutissima percezione della realtà sociale politica dell'Italia contemporanea e dell'Italia di adesso; delizioso senso dell'umorismo; autentica forza lirica; perfetta sempre, a tratti incantevole, realizzazione espressiva. Tutto ciò fa di questo romanzo un'opera d'eccezione, una di quelle opere, appunto, a cui si lavora o ci si prepara per tutta una vita. Nessun residuo di pedanteria documentaria, di oggettivismo naturalistico in Tornasi di Lampedusa. Infatti lo scrittore, a differenza dei veristi, non crede nell'oggettività del processo storico; la sua cultura e la sua sensibilità sono squisitamente decadenti. Lo sfondo del romanzo è la Sicilia, di cui il poeta parla con un amore desolato e funebre, con sensualità beffarda e critica, una Sicilia con un futuro certamente non roseo come ci si aspettava. Ciò si evince dalla conversazione tra don Fabrizio e Chevalley, il quale, in nome del Re, aveva chiesto al vecchio aristocratico di accettare la nomina a senatore, ricordando che il "Senato è la camera alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici italiani approva o respinge quelle leggi che il Governo propone per il progresso del paese". Attraverso questa carica il principe avrebbe potuto "rappresentare la Sicilia (...), fare udire la voce di questa sua bellissima terra, che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudirei.
    In questo dialogo, le due figure si fronteggiano, cariche di valori emblematici.
    Da un lato Chevalley, che proviene dal mondo dinamico del Nord, tipico liberale, crede, con un entusiasmo non privo di ingenuità, nell'iniziativa umana e nell'avanzare della storia, nella modernità, nel progresso della civiltà, nella possibilità di migliorare le condizioni sociali dell'isola. Dall'altro canto, il principe esprime invece il fatalismo di una realtà immobile da secoli, al di fuori della storia, decrepita, svuotata di forze, esponendo la vicenda storico-attuale della "nazione" siciliana-"In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci, perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento " . Nelle parole del principe, lo scrittore pare volere innestare una sensibilità contagiata dalla "cultura della crisi", propria dell'Europa tra le due Guerre e spargere colori e timbri che potremmo definire da "mito asburgico". In altre parole, se si riconsidera la sapiente strategia narrativa del "Gattopardo", ci si accorge che ad un dato momento Giuseppe Tornasi fa della vicenda risorgimentale il simbolo di una frattura, di un discrimine, di una svolta epocale.
    Con il suo chiaroveggente distacco, che lo apparenta alla disincantata famiglia degli "uomini senza qualità", don Fabrizio Salina scopre la distonia che presto interverrà nelle relazioni tra uomo e mondo, spezzando l'antica complicità: ossia avverte il sentimento angoscioso "della espatriazione connesso alla moderna coscienza di una malvagità che è, insieme, della storia e della natura.
    L'interna pulsione, che lo spinge sempre più a "corteggiare" la morte, si configura, infatti, come smarrimento di un io diviso, come paura del vuoto e del caduco.
    Così la decadenza di un illustre casato, registrata nelle sue tappe salienti e suggellata dall'espressione "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi" , acquista le sembianze dell'inabissarsi di una condizione esistenziale, quella garantita dal mondo di ieri. Comunque nel romanzo non c'è solo un giudizio storico su un periodo della storia italiana, ma c'è piuttosto un giudizio sull'Italia e sul popolo italiano. Il Tornasi paragona gli avvenimenti dell'epoca, in cui si svolge la vicenda del romanzo, con quelli a lui più vicini e trae la conclusione che le cose non sono cambiate di molto e che il gioco politico è sempre lo stesso. Quindi come ha detto G. Barberi Squarotti " dominio borbonico e fascismo, conquista garibaldina e occupazione alleata, vita politica nell'Italia appena unificata e nell'Italia dopo il '45, costituiscono nelle pagine di Tornasi di Lampedusa una trama continuamente intrinsecata di rapporti allusivi, di richiami, di mutue implicazioni".
    Questo porsi al di sopra della storia , per riconoscerla come un eterno fluire, sempre immutabile, evidentemente è suggerito all'autore dall'amara considerazione dello svolgersi degli avvenimenti fino ai suoi tempi : dai Borboni al governo regio dei Savoia, per mezzo di Garibaldi, dal regime liberale alla dittatura, per mezzo di Mussolini, dalla dittatura alla democrazia, per mezzo di una guerra rovinosa. Il gioco politico del potere è sempre lo stesso, cambiano Ì nomi ma non cambiano i modi. Ritenuto nuovo, il discorso sviluppato nel "Gattopardo" è stato accolto con sorpresa. Ma "l'insularità d'animo" e la possibilità di "smagarsi " erano state sottolineate dai grandi letterati italiani, ma soprattutto siciliani: Verga, Pirandello.
    Li accomuna, infatti, il fatto di essere nati in Sicilia, "terra bellissima", ma arida, priva di ogni illusione, cosciente di non poter superare il muro invalicabile, quale quello dell'arretratezza economica, sociale. Da ciò scaturisce, in ultima analisi, il pessimismo totale del Verga, la sua convinzione che la realtà data, per negativa che sia, è immutabile, e che la letteratura può solo avere la funzione di contemplare ciò che è dato una volta per tutte. Questo rifiuto verghiano dell'impegno politico della scrittura, l'affermazione della pura letterarietà dell'opera e della scelta dell'impersonalità come carattere fondamentale della nuova arte "realista" rimandano ad una situazione economica, sociale e culturale ben precisa. Verga è il tipico "galantuomo" del Sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno, e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida e parassitaria, e delle masse di contadini estranee alla storia, chiuse nella loro miseria e nei loro arcaici ritmi di vita, passive e rassegnate. Quindi è il tipico siciliano che denuncia implicitamente questo modo di "esistere". Si può dire la stessa cosa per l'altrettanto siciliano Pirandello, il quale dopo aver notato che "i siciliana quasi tutti, hanno un'istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati", e che "ognuno è e si fa isola da sé", lo scrittore agrigentino precisava: "Ma ci sono quelli che evadono, quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che bravando quell'istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo, che li fa isole a sé, e vanno, ambiziosi di vita, dove una certa loro fantastica sensualità li porta, spassionandosi o piuttosto soffocando e traendo la loro vera riposta passione con quell'ambizione di vita effimera". La possibilità di "smagarsi" viene confermata anche da un detto siciliano "Cu nesci arrinesci" chi esce riesce : "bisogna però partire molto, molto giovani; a vent'anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che (...) la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori" ed inoltre "la ragione della diversità deve essere in quel senso di superiorità che bersaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità" .
    L'atteggiamento dei siciliani sembra essere ambivalente; infatti, se da un lato vi sono individui che "vogliono il sonno, ed odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali ", c'è anche colui il quale sa rimboccarsi le maniche quando urge il bisogno. Queste persone però non trovano un terreno fertile, non trovano un progresso socio-economico, che possa permettere loro di apportare dei cambiamenti.
    Cosi la maggior parte di questi "animi innovatori" preferisce abbandonare il loro passato, Ì loro ricordi, per iniziare una nuova vita, per migliorare la propria condizione e spostarsi dove l'ambiente lo permette. E probabilmente questa fuga "dal natio borgo selvaggio" è stata e sarà una delle motivazioni (non cause) per cui la Sicilia vive in un eterno
    processo statico, dove dal punto di partenza ci sono pochi metri di distanza Altre motivazioni, individuate dallo stesso Tornasi : " (...) violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, (...) tutti questi Governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi . Ma è necessario rilevare che, nonostante ci sia quest'aspetto ambientale, culturale, in ogni modo tutto dipende dalla situazione politica che si è avuta e che si ha tuttora in Sicilia.
    Infatti i problemi non trovarono alcuna soluzione in quest'arco di tempo, ma continuarono durante la "dittatura" di Mussolina il quale dichiarò risolta la "questione meridionale". In realtà l'industria del Sud fu prevalentemente limitata a pochi stabilimenti marginali e sussidari alle forti industrie del Nord.i u Ma è un grido che rimbomba per cadere nell'oblio. I bisogni della nostra terra (e sono tanti) sono sempre soltanto sfiorati svogliatamente e anche con qualche fastidio. Si è parlato genericamente del Mezzogiorno, della disoccupazione, delle infrastrutture. Promesse tante, impegno nessuno. L'unica differenza dai tempi di Cavour, è che oggi si è finalmente capito (almeno in teoria), che occorrono "soluzioni specifiche" per ogni Paese. Per risolvere qualsiasi problema, i principi fondamentali devono essere "flessibilità e mobilità" , e devono essere inquadrati nella realtà dei rispettivi Paesi. Questo concetto è valido soprattutto per il Mezzogiorno italiano, le regole generali devono essere in grado di penetrare direttamente in questa parte dell'Italia, che più di altra soffre. Attraverso questo excursus storico possiamo ben constatare come la storia di oggi non sia molto differente da quella di ieri; la Sicilia ha sempre le stesse esigenze, chiede sempre la stessa cosa: maggiore attenzione da parte del Governo. Con ciò non voglio dire assolutamente che l'apatia della Sicilia e dei siciliani dipenda esclusivamente dal sistema governativo, anche se ha avuto una certa influenza nell'assetto globale nella società e nell'economia del luogo, ma è anche da attribuire, come dice lo stesso Giuseppe Tornasi, alla psicologia e alla cultura isolana. Infatti egli deplorava la generale irresponsabilità della classe dirigente siciliana, il suo sogno di poter vivere isolata, mentre l'Europa aveva sviluppato nel tempo una propria dimensione civile, quando dice :
    "Noi fummo i Gattopardi, Ì Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalletti e pecore, continueremo a crederci il sale della terra"
    Lampedusa ci ha invitato ad aprire gli occhi, non a chiuderli, a guardare in faccia il progresso delle altre nazioni e non a voltare le spalle ad una tale "diversità".
    Bisogna considerare il "Gattopardo" come il libro di oggi e non di ieri, un apologo e una denuncia e non un romanzo storico. All'eterno splendore del romanzo "II Gattopardo" corrisponde la grandezza dell'omonimo film di Visconti. Il regista intese che in quella botte isolana c'era l'assenzio della grande distilleria decadente, piuttosto che il vinello della vendemmia neorealista e meridionalista, del romanzo storico o verista. E imbottigliò quel prezioso elisir in una confezione sontuosa, aggiungendovi di suo suggestioni e citazioni. Tra le dieci o cento opere da sottrarre al diluvio universale, certo che un "Gattopardo" ci deve essere: quello di Tornasi o quello di Visconti. Alcuni sostengono che sarebbe più opportuno salvare il romanzo, altri il film. E il "caso Gattopardo" è l'unico in cui due capolavori si fronteggiano, stupendi entrambi, e tuttavia diversi. Certo Visconti aveva sentito vibrare più di una corda, leggendo il Gattopardo fresco di stampa. Un'antica aristocrazia, quella dei Tornasi come la sua, alle prove del fuoco della storia, del mutamento epocale. Ieri il nodo del 1860 e dell'Unità, oggi quello del secondo dopoguerra e del post-fascismo. E da questa sintonia nasce pure una straordinaria intuizione critica: che il Gattopardo non sia un'opera cosi reazionaria come sembra, che anzi possa contenere o almeno, autorizzare una critica al trasformismo delle classi dirigenti di ieri e di oggi, che il punto di vista aristocratico non vada letto come un alibi o un tranello, ma come sconsolata lettura "alternativa", come una demistificazione dell'ideologia borghese, come una sfida al protervo degli "sciacalletti" alla Sedara.
    Li accomuna, inoltre, il disprezzo nei confronti del nuovo che sta per nascere. Ma il nuovo che per l'aristocratico Tornasi di Lampedusa era soltanto disordine e mediocrità, per l'altrettanto aristocratico ma progressista Luchino Visconti, è invece una rivoluzione mancata, o tradita a tal punto da far ripiegare la sua polemica antiborghese dentro la nostalgia di un passato che non può tornare. L'anno era il 1963, lo stesso in cui muore Papa Giovanni, lo stesso in cui Moro forma il primo governo di centro sinistra. E se l'anno prima, in agosto, si era spento il mito di Marylin, sempre in quel 1963 il 22 novembre a Dallas veniva assassinato il presidente John Kennedy. Un caso? Un collage di eventi formato da alcune semplici circostanze? O il senso di transitorietà e di transizione che si respirano nel film andarono perfettamente a collimare con la sensazione diffusa di oltre 10 milioni di spettatori: quella di assistere ad una mutazione necessaria per la sopravvivenza di un" vecchio regime"? Difficile staccarsi tra tanti interrogativi senza rischiare di forzare le interpretazioni. Ma è lo stesso Salina, all'inizio della lunghissima scena del ballo finale, a riflettere ad alta voce guardando i giochi di un gruppo di bambine : "La frequenza di questi matrimoni fra cugini non favorisce la bellezza della razza. Eccole là, sembrano scimmiette pronte ad arrimpicarsi in cima ai lampadari (,...) " .
    Accostando il tramonto di un'epoca con la perdita della bellezza, il principe scrittore giustifica la transizione ad un nuovo ordine, ma più necessario, esclamando: "se vogliamo che tutto rimanga com'è, è necessario che tutto cambi".




    L'IMMOBILISMO GATTOPARDIANI
    1. " II Romanzo della fine del Tempo "
    << Nune et in hora mortis nostrae >>: fra questi due punti inesorabili, fra questa sorgente e questa foce, fra il presente e la sua fine si svolge il filo del racconto; si posa sopra il mondo, sopra gli eventi, lo sguardo freddo di Salina ed insieme di Lampedusa; la sua voce si imposta sulla nota bassa e malinconica della consapevolezza della morte. Lampedusa pone subito il suo eroe. Don Fabrizio, oltre che in quello della comune esistenza, in una classe aristocratica, vale a dire festosa e dissennata, cieca e sull'orlo della rovina, della scomparsa, in una Sicilia in eterna, inarrestabile decadenza, esplicita e desolata, rigogliosa e desertica, solare e tenebrosa, esplicita ed enigmatica; in una generazione a cavallo fra i vecchi e i nuovi tempi, in quel fatidico clima risorgimentale. In quell'anno 1860 dell'unita nazionale, ennesima mascheratura storica di un costante immobilismo, attraversato da quasi tutta la letteratura Siciliana, da Verga a De Roberto, a Pirandello. Queste estremità rendono il principe Salina in apparenza non dissimile dai siciliani del suo tempo, non dissimile da quella cerchia di nobili con i quali deve malgrado tutto solidarizzare- Ciò che veramente l'estranea ed isola, dal tempo dal contesto, ciò che lo pone al di fuori e al di sopra della superiore classe alla quale appartiene, è la materna ascendenza germanica, da quella principessa Carolina che con la sua alterigia aveva congelato la corte sciattona delle due Sicilie. Quest'ascendenza allude certo ad una provenienza Sveva, rimanda ad una più aulica discendenza dal " vento di Soave ", dal grande Federico e materialmente regala al Principe l'imponente aspetto, l'energia, il pelame color miele, l'occhio ceruleo, l'intelligenza razionale, la propensione alle idee detratte, l'inclinazione per la matematica, la passione per l'astromia: la fuga del Principe nell'atarassia, dentro gli incontaminati spazi siderali, dentro quel macrocosmo che è l'universo sopra dì noi. Insieme, però, la madre imprigiona il figlio in una teutonica corazza che era fatta d'orgoglio, rigidità morale, scetticismo, sarcasmo, disprezzo per errori e carenze altrui ed anche snobismo. Ma l'atteggiamento psicologico del Principe si stemperava nell'abbandono all'istinto, nel discendere fino ai bassifondi di Palermo, all'amore mercenario con Mariannina; tale atteggiamento del Principe si poteva cogliere nella simpatia per l'ironico, cinico, elegante e disinvolto nipote Tancredi, nell'attrazione verso Angelica (stupenda creatura sorta dal basso più innominabile che incontra il Principe all'incrocio di una decadenza e di una ascesa, e ne soddisfa le attese di sensualità e di estetismo), verso uomini, animali e cose, verso tutto quanto è soggetto alla condanna della corruzione e della fine. Il Gattopardo è proprio il romanzo della fine: di un'epoca, di una classe, del suo protagonista, Fabrizio Corbera, Principe di Salina, del suo autore, Giuseppe Tomasi Principe di Lampedusa. La società letteraria, rappresentata dal critico Emilio Cecchi ed dal poeta Eugenio Montale, prese atto dell'esistenza di questo Principe Siciliano nell'estate del 1954, a San Pellegrino Terme. Nella cittadina bergamasca il futuro scrittore vi era capitato per accompagnare Lucio Piccolo, convocato per essere presentato dal Montale ad un convegno letterario. Dell'apparizione dei due cugini al convegno, ne farà dettagliato racconto Giorgio Bassani nella prefazione a "Il Gattopardo": << Lucio Piccolo risultò la vera rivelazione del convegno [...]. Dalla Sicilia era venuto in treno: facendosi accompagnare da un cugino più anziano e da un servitore. Ce n'era abbastanza, se ne convenga, per eccitare una tribù di letterati in semi-vacanza! Sta di fatto che sul Piccolo, sul cugino e sul servitore [...], durante il giorno e mezzo che rimasero a San Pellegrino, conversero la curiosità, lo stupore e le simpatie generali >>, racconta l'autore de "Il Giardino dei Finzi Contini". Riesce difficile stabilire se sia stata di Piccolo o di Lampedusa la perfetta regia della loro apparizione in pubblico, forse di tutti e due, essendo pari nei cugini la malizia e l'ironia. I letterati italiani avevano appreso quale letterato fosse il Piccolo, ma di Lampedusa avevano intravisto solo l'aspetto di gran signore meridionale, alto e massiccio, di colorito olivastro, i grandi occhi neri e penetranti. Non potevano certo immaginare quale letterato fosse, quale grande scrittore sarebbe diventato. E del resto anche a Palermo, dove era tornato dopo una giovinezza e una maturità di viaggi in tutta Europa e soggiorni in Inghilterra, in Francia, in Germania, nei Paesi Baltici, nel Castello della moglie Alessandra Wolff - Stomersee, pochi parenti ed amici conoscevano l'intelligenza, l'immensa cultura, il dominio delle più importanti letterature, la perfetta padronanza di tre o quattro lingue di quell'uomo solitario e silenzioso, lucido e malinconico. "Mostro" lo chiamavano parenti ed amici. "Mostro sciroccale" egli stesso si firmò in qualche lettera. « Al mostro
    Al ritorno da San Pellegrino, Tomasi di Lampedusa cominciò a scrivere il suo romanzo; a tal proposito il figlio adottivo Gioacchino Lanza racconta così: << A distanza ravvicinata quella repubblica delle lettere gli apparve composta da Semidei. Fare il letterato non sempre equivale ad esserlo, e non tutte le menti raccolte a San Pellegrino avevano fatto un gran che. L'attivitità e la fortuna di Lucio Piccolo, un paio di giorni a San Pellegrino fuori dalla sua solitudine, le lezioni pomeridiane che impartiva a Francesco Orlando [...], si tradussero in incentivi all'azione. Scrive già sul finire del 1954, e, nei trenta mesi che gli restavano di vivere, Lampedusa scrisse quasi ogni giorno ». Il libro, come si sa, venne inviato alla casa editrice Mondadori e poi a Elio Vittorini, che allora dirigeva l'einaudiana collana "I gettoni": sia l'una che l'altro lo rifiutarono. La lettera di Vittorini, datata 2 Luglio 1957, gli fu recapitata a Roma, dove lo scrittore era stato ricoverato in clinica e dove morì il 23 Luglio. Il dattilosritto fu poi passato da Elena Croce a Giorgio Bassani, che dirigeva per la casa editrice Feltrinelli la Biblioteca di Letteratura. Qui fu pubblicato nel Novembre del 1958. Si erano svolte in quell'anno le elezioni politiche e il democristiano A. Fanfani era diventato Presidente del Consiglio: era morto Pio XII e sul soglio di Pietro era salito Giovanni XXIII. Il Gattopardo cadeva come un meteorite nelle acque narrative italiane mosse in quegli anni dai venti del neorealismo e dello sperimentalismo, del razionalismo e dello storicismo; cadeva fra le figure dominanti di Vittorini e di Moravia, di Gadda e di Calvino. "II Gattopardo" creava il suo immediato ed inarrestabile successo presso i lettori, smarrimento, avversione, soprattutto presso i critici di vecchio stampo: libro vecchio, dissero, scritto con almeno cinquanta anni di ritardo, un epigono de "I Viceré" di De Roberto e de "I Vecchi e i Giovani" di Pirandello, libro antistoricistico, reazionario. Fu il sempre attento Montale a mettere le cose a posto con una recensione del '58. << Libro di un grande Signore, di un grande "snob" nel più alto significato della parola, di un uomo che tutto ha compreso della vita, di un poeta-narratore dotato di una implacabile chiaroveggenza, di un sentimento dell'esistenza che è insieme stoico e profondamente caritativo >>. Il grande critico Luigi Russo, con un ampio saggio del 1960, coglieva, poi, la profonda verità e la grandezza del romanzo. Le recensioni in Francia ed in Inghilterra, particolarmente quelle di Aragon e di Forster, spiazzavano e mettevano a tacere definitivamente i critici italiani. Il passare del tempo ha fatto sì che questo romanzo, nutrito dei succhi della letteratura europea, ma autonomo, singolare, rivelasse la sua estraneità ai travagli e alle tempteste letterarie, agli assilli della storia, lo rilevasse un romanzo del tempo e insieme fuori dal tempo, lo rivelasse qual'era: un classico. Romanzo della fine ho detto. Di un uomo che sente la fine di un tempo, del "suo" tempo, che non nutre illusioni, speranze per il tempo che verrà. Nell'impulso campanelliano della vita, della breve esistenza, il suo sguardo, il suo orecchio si staccano con dolore dallo scenario e dal brusio presente, si volgono alla stasi metafisica, ai leopardiani "interminati spazi", ai "sovrumani silenzi"; si volgono alla musica dei numeri, alla fredda luce delle stelle, "le sole pure".
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    4. Il ricambio dall'elite politica.
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    L
    La critica letteraria, spesso puntigliosamente, si è concentrata sull'autobiografismo del romanzo, e se questo tolga o aggiunga validità artistica all'opera e grandezza al suo autore. Dal mio punto di vista, ciò che conta è, invece, la capacita di Lampedusa di cogliere, col linguaggio proprio dell'arte, alcuni processi della storia, alcuni mutamenti della realtà, alcune riflessioni su un tema centrala per qualunque società: il potere e la sua capacità di modificarsi, l'antico problema dell'ineluttabilità del potere e della metamorfosi attraverso le quali esso si riproduce. Da questo punto di vista il ricambio delle classi dirigenti, la circolazione delle elites, non poteva trovare migliore trasposizione metaforica ne "II Gattopardo", parabola esemplare di una famiglia colpita nel momento cruciale di un inarrestabile declino. Già le prime pagine del romanzo, ove nella toilette il Principe si abbiglia con cura, indugia allo specchio ancora consapevole della sua prestanza fisica, contengono i segnali della decadenza, il senso della morte che si insinua tra le pieghe di una indomita vitalità, cosi come il coltello che affonda in sontuosi dolci barocchi, distruggendo in un attimo secoli di sapienza culinaria gelosamente custodita: questa morte incombente, immanente, corteggiata, onnipresente nel paesaggio siciliano, nella solitudine astrale del Principe, nella solitudine di una classe sociale sconfitta, nella solitudine di tutto il popolo, quello siciliano, che oscilla fra l'ebbrezza della perfezione, l'innamoramento di sé, la sconfitta storica, la morte appunto. Così il cerchio si chiude: Concetta alla fine del romanzo è un ammasso di sete nere e capelli bianchi, prigioniera di un mondo sparito, vestale impotente di un reliquiario corroso dalla polvere del tempo prima che dal mandato riconoscimento ecclesiastico. Il palazzo dei Salina non ha più nulla dei fulgori di un tempo, la carcassa dell'allegro Bendicò, cane fedele del Principe, è solo un "mucchietto di polvere livida" scaraventato da una finestra giù nel cortile, come ad esorcizzare un simbolo palpabile della morte, la fine di tutto.
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    5. Il potere e la morte.
    Da questo grande affresco che è il "Gattopardo" si staccano due motivi: quello del potere e quello della morte, strettamente legati, elementi quasi inseparabili di una diade ineluttabile in una terra, la Sicilia, che Lampedusa assume come immagine simbolica, luogo della mente e dell'anima nel quale è possibile rappresentare le due facce contrastanti, contraddittorie all'apparenza, eppure entrambe presenti, nella cultura e nella storia siciliana. In primo luogo il mito di una Sicilia inabissata nella sua impenetrabilità, immobile, fissata nel suo destino di terra di conquista, estranea ed indifferente a tutto ciò che si muove nella storia, quasi a sottolineare la sua difesa contro i colonizzatori, contro chi l'ha sottomessa e depredata. Questa Sicilia è quella in cui ogni cosa (il paesaggio violento nei suoi odori e accecante nella sua luce, la povertà atavica mischiata alla traboccante ricchezza) è intrisa di morte, di senso del non essere, dello sparire. Accanto a questa c'è la Sicilia dell'inguaribile orgoglio, dell'alto senso di sé, ma anche la Sicilia affetta da un destino di dominazione subìta, di dipendenza, di umiliazione secolare. L'altro elemento, dicevo, è il potere con i suoi mutamenti, colto in un cessante alternarsi di elites dirigenti che, mutate le forme, le classi sociali, i gruppi economici emergenti, i soggetti protagonisti, si ripropone sempre uguale, con una tenace vocazione alla durata, in cui ciò che conta è la sua sopravvivenza. Ciò che in Lampedusa è di più cupo (e che lo avvicina a De Roberto) è la convinzione che la storia sia una sorta di movimento apparente, che il rimedio delle cose, gli avvenimenti, i cambiamenti che si succedono, abbiano un solo scopo e valore: mantenere la stasi, l'immobile equilibrio dato una volta per tutte, nulla, dunque, che possa avvicinarsi all'idea di storia come mutamento, realtà in movimento, progresso. Una storia senza progresso dunque, il che equivale ad una non storia, in una dimensione in cui appare impossibile cambiare il mondo, il corso delle cose, in cui ciò che resta è la morte, tante volte corteggiata dal Principe Don Fabrizio, silenziosa ed insidiosa compagna di sempre, in agguato anche nei momenti di vitalità a sottolineare la "sensazione di vita", dell'esserci, proprio mentre la vita si consuma come i granelli di sabbia che scendono nella clessidra, inarrestabili. Il romanzo potrebbe concludersi, infatti, (e sarebbe compiuto per significato e bellezza), con il capitolo della morte del Principe in cui si esprimono e si fondono almeno due modi del rappresentare e del narrare. Il primo è quello della morte del singolo, del protagonista, un gigante solitario, tenacemente legato alla vita che si appresta ad uscire da lui come un minaccioso fiume in piena, un "precipizio di acque tenebrose verso l'abisso". Don Fabrizio morente, con la sua sconfinata solitudine, con la sua lucida percezione della fine (del suo corpo e della sua memoria), col suo fulmineo attraversare come in un sogno gli eventi, le situazioni, i momenti, cose che gli sono appartenute e che adesso sbiadiscono fino a dissiparsi nel ricordo, rappresenta certamente uno dei punti più alti della letteratura di questo secolo. Il secondo registro, altrettanto forte e presente è quello che questo capitolo racchiude e simboleggia: lo sparire, il venir meno di un nobile casato, di quella aristocrazia fondiaria che aveva rappresentato il perno di un assetto politico-sociale-feudale, ora non più adeguato ai nuovi processi economici, alle nuove idee, a nuovi interessi sociali, per riprendere le parole di Gaetano Mosca, e quindi destinato ad essere sostituito da una nuova classe, più capace per energie, qualità anche individuali, che sono espressione di un profondo mutamento della società.


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    Brevissima analisi del romanzo "Il Gattopardo"

    Notizie sull'autore
    Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 - Roma 1957),di famiglia aristocratica (quella dei principi di Lampedusa, duchi di Palma e Montechiaro) ,prese parte alle due guerre mondiali e compì lunghi viaggi in Europa. Appassionato lettore di libri storici e di romanzi stranieri, soprattutto francesi, si dedicò alla narrativa negli ultimi anni della sua vita. Il suo più famoso successo, "Il Gattopardo", pubblicato dopo la sua morte nel 1958 , costituì un <<caso letterario>>, sia per la personalità allora misteriosa dell'autore, sia per la sua ironica rappresentazione dei mutamenti storici-sociali del periodo risorgimentale. Altre opere postume, di minore importanza, sono : "Lighea", "Lezioni su Stendhal" , "Invito alle lettere francesi del Cinquecento".


    Trama e personaggi
    Don Fabrizio Salina è un ricco siciliano appartenente ad una nobile casata che da secoli gode del rispetto indiscusso degli abitanti dei propri feudi , nemmeno la notizia dello sbarco a Marsala di Garibaldi sembra intaccare la dura scorza del Principe, che è ben consapevole del carattere avverso a ogni mutamento dei siciliani. La vita sua e quella della sua numerosa famiglia scorre monotona e tranquilla : per i suoi familiari il Principe prova persino un lieve sentimento di disprezzo per la loro piattezza morale , con la sola eccezione di Tancredi, il nipote, preferito allo stesso primogenito Paolo per vivacità, imprevedibilità e prontezza di spirito : un vero, giovane Gattopardo, così com'era stato lui in passato. E' alla residenza dei Salina nel feudo di Donnafugata che si snodano gran parte delle vicende del romanzo : qui Don Fabrizio deve affrontare l'ascesa di Don Calogero Sedara, il sindaco, che in breve tempo aveva saputo raccogliere, grazie alla propria arguzia , un patrimonio tanto vasto da sfiorare quello del Principe. La affronta, a dire la verità, con un pizzico di sdegno per quell'omino tanto piccolo ma tanto intelligente, ma tant'è : di lì a poco , inoltre, Tancredi conoscerà Angelica, la figlia di Don Calogero, e se ne innamorerà follemente. Il Principe, che voleva bene a Tancredi e rispettava le sue scelte, non se la sente di impedire questo amore e a poco a poco comincia a scoprire nel rozzo Sedara delle qualità di amministrazione non comuni, oltre che a godere della bellezza della splendida Angelica.. Il sentimento di stima e rispetto è naturalmente reciproco anche da parte dei Sedara. D'altronde il matrimonio fra Tancredi e Angelica rappresenta il mutamento dei tempi, cioè l'unione di un nobile di stirpe e una popolana , tra l'altro - dato non trascurabile - " a dote invertita ": Tancredi è infatti squattrinato per la scellerata gestione del patrimonio del defunto padre ( cognato del Principe ), Angelica invece gode di una più prospera situazione economica . Tutto ciò sarebbe stato impensabile solo fino a qualche anno prima.
    Una digressione è poi dedicata a Padre Pirrone, sacerdote di casa Salina. Prima del suo ritorno al paese natale di S.Cono, non si può dire certo che l'autore lo presenti in modo molto positivo : sembra infatti condurre una vita piuttosto sciatta, senza nerbo , passata a concedere assoluzioni al Principe per le sue scappatelle notturne. E invece, a sorpresa, la sua figura è di molto rivalutata a S.Cono, quando grazie alla sua proverbiale sagacia (o piuttosto grazie al caratteristico spirito di conciliazione tipico di un sacerdote ), riesce a dirimere un' intricata lite familiare fra popolani.
    Don Fabrizio intanto sente a poco a poco affievolirsi il suo spirito vitale : probabilmente l'ultimo momento di apparente felicità è rappresentato dal ballo concessogli da Angelica, in cui, per l'ultima volta, si tuffa in un mondo, quello dei giovani, che non gli apparterrà più. Inizia dunque la parabola discendente del romanzo : il Principe, dopo delle brevi considerazioni sulla sua vita, in cui afferma di averne vissuta veramente poca, spira acciaccato dai malanni ma circondato dai parenti. La descrizione da anziane delle tre figlie del Principe, Concetta, Caterina e Carolina, rimaste signorine per via del loro carattere riservato , un tempo elogiato e ormai divenuto antiquato e scorbutico, ricorda al lettore il lento ma inesorabile trascorrere del tempo ; e infine, l'ordine da parte di Concetta di buttare la carcassa imbalsamata di Bendicò, cane dei Salina un tempo fedele e gioioso, facendola precipitare nel vuoto e riducendola a un mucchio di polvere, ricorda mestamente la triste natura dell'uomo, destinata alla scomparsa e all'oblio. Si chiude così il romanzo, in netta contrapposizione con come era iniziato, vale a dire con il farso e il lusso della residenza palermitana dei gloriosi Salina.

    Fabula e intreccio
    Fabula e intreccio nella maggior parte dei casi coincidono, fatta eccezione per alcuni momenti nel corso della narrazione, quando gli eventi preludono al ricordo di quanto avvenuto solo poco tempo prima (tecnica del flash-back). Nel capitolo I, ad esempio, accade che Don Fabrizio, trovandosi a contemplare la bellezza primaverile del suo giardino, rammenta che appena un mese prima lo spettacolo non era ugualmente apprezzabile, per via del ritrovamento nel medesimo luogo del cadavere di un giovane soldato.


    Narratore e focalizzazione
    Chi narra le vicende di casa Salina è un narratore onniscente, che conosce in partenza il reale svolgimento dei fatti. La focalizzazione è dunque di tipo "zero", caratteristica di un narratore esterno alla vicenda ( nel nostro caso identificabile con l'autore stesso), che si limita solo a raccontarla, non rimanendo però totalmente al di sopra dei personaggi: non è escluso infatti qualche intervento del narratore magari a sfondo comico-sensuale, come quando esso ci rivela un segreto dell'intimo di Don Fabrizio, vale a dire che anche al principe di Salina sarebbe piaciuto odorare il "profumo" delle lenzuola della bella Angelica, sollecitato a farlo da Don Ciccio Tumeo.


    Livello temporale e spaziale
    Per buona parte dell'opera, l'autore fa cenno a eventi svoltisi in un lasso di tempo compreso tra il 1860 e il 1862, concentrando l'attenzione in modo particolare sugli avvenimenti di alcuni mesi. Solo nell'ultima parte del romanzo si nota un forte scarto temporale: dal 1862 si passa al 1883 e per finire si arriva addirittura al 1910 . Probabilmente è intenzione dell'autore chiudere in modo mesto il suo romanzo, rappresentando così proprio alla fine il lento e inesorabile scorrere del tempo e l'oblio a cui inevitabilmente le vicende narrate prima saranno soggette. Anche i luoghi dello svolgimento delle vicende sono molto significativi : spazi aperti e spazi chiusi si alternano creando notevole continuità, i primi rappresentati dalla selvaggia bellezza della Sicilia, i secondi dalle magnifiche residenze dei Salina, sia a Palermo che a Donnafugata. Le svolte narrative ( incontro fra Tancredi e Angelica, ad esempio )avvengono in prevalenza in questi ultimi , non limitando però,d'altro canto, la funzione della natura paesaggistica siciliana a quella di semplice "cartolina".


    Referente storico
    Il referente storico in questo romanzo è ben chiaro e definito : le vicende narrate si svolgono nel quadro di una Sicilia "immobile" e indifferente agli importanti mutamenti politici dell'epoca, quale ad esempio lo sbarco dei Mille di Garibaldi, che sancisce l'avvio del processo di unificazione dell'Italia. I cambiamenti sociali del periodo sono altrettanto evidenti : l'ascesa della borghesia e la corrispondente diminuizione di importanza dei nobili casati, a scapito appunto delle persone più intraprendenti e spregiudicate.


    Conclusioni personali
    Probabilmente il successo di questo libro sta tutto nella capacità di Tomasi nel creare una storia straordinariamente verosimile, calata nel contesto di un epoca che lo sfiora ma che non gli appartiene del tutto,abbellendola delle caratteristiche tipiche di un romanzo, quali ad esempio le liriche descrizioni dei paesaggi,le sfumature caratteriali di alcuni personaggi talvolta ironiche, la passione amorosa che non guasta mai. Tutti questi elementi, uniti alla varietà e all'imprevedibilità degli eventi, fanno sì che il lettore tenga viva la propria attenzione fino al termine della narrazione. Come se non bastassero già le implicazioni storiche e liriche a rendere grande questo romanzo, ecco che l'intera opera è permeata anche da un sottile ma sensibile velo di malinconia, che viene acuito proprio nel finale : dal Gattopardo si evince dunque anche una problematica di carattere esistenziale, tesa a dimostrare come nulla sia duraturo e tutto destinato all'oblio perpetuo.
     
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