ARISTOTELE (384-322 A.C.)

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    ARISTOTELE (384-322 A.C.)

    CRITICA DELLA METAFISICA PLATONICA DELLE IDEE

    Aristotele, trasferitosi giovanissimo ad Atene, entrò nell’Accademia platonica e vi rimase, come discepolo di Platone, per venti anni, fino alla morte del maestro (347). In questo periodo Aristotele scrisse opere (di cui ci sono giunti frammenti) in forma dialogica, secondo la tendenza che si era affermata nell’Accademia ad imitazione dello stile del maestro. In tali opere Aristotele si mosse nell’ambito del platonismo ma già emersero spunti critici verso le teorie di Platone.
    Uscito dall’Accademia alla morte del maestro, iniziò per Aristotele un periodo di crisi spirituale ed intellettuale che lo portò a staccarsi definitivamente dalla filosofia platonica e quindi ad elaborare un proprio sistema filosofico.
    Successivamente anch’egli fondò una sua scuola, a cui diede il nome di Liceo. Aristotele riconobbe a Platone il merito di aver posto a fondamento delle realtà sensibili e mutevoli le idee, vale a dire i modelli formali immutabili ed eterni.
    In altre parole, Platone aveva capito che gli enti sensibili del mondo non potevano spiegarsi da sé, in quanto il loro fondamento si trovava in una realtà extrasensibile metafisica, non soggetta ad alcun mutamento, realtà che Platone aveva chiamato idea. Tuttavia, secondo Aristotele, la metafisica platonica delle idee era incappata in alcuni gravi errori.
    D’altra parte gli stessi eredi di Platone, nell’ambito dell’Accademia, avevano messo in discussione la teoria delle idee. Ad esempio Speusippo, nipote e successore del maestro, aveva negato l’esistenza delle idee e aveva sostituito ad esse i numeri matematici, intesi come entità pure trascendenti; l’astronomo e scienziato Eudosso di Cnido, frequentatore dell’Accademia, aveva affermato a sua volta che le idee non erano separate (= trascendenti) dagli enti del mondo.
    Un altro discepolo, Senocrate, succeduto a Speusippo nella direzione dell’Accademia, aveva identificato le idee con gli enti numerici. Alla morte del maestro dunque si era sviluppato un intenso dibattito relativo alla validità della metafisica platonica, dibattito a cui partecipò lo stesso giovane Aristotele, che scrisse anche un trattato, Sulle idee, andato perduto.
    Di tale scritto ci sono pervenuti alcuni frammenti attraverso Alessandro di Afrodisia, grande commentatore delle opere aristoteliche, vissuto tra il II e il III secolo d.C. In tale trattato il filosofo di Stagira (Aristotele nacque a Stagira, una polis vicina alla penisola della Calcide) sviluppò vari argomenti per confutare la teoria delle idee intese come realtà separate e trascendenti rispetto alle cose. Tutti gli errori e le difficoltà di Platone derivavano dal fatto di aver concepito la forma ideale separata dalle cose sensibili, esterna ad esse, come se l’essenza di una cosa, ossia la sua natura più profonda e vera, potesse trovarsi fuori dalla sua esistenza concreta. Platone quindi, agli occhi di Aristotele, era responsabile di aver creato un dualismo tra idee e cose, tra essenza ed esistenza, tra forma ideale universale ed ente sensibile particolare.
    Platone ad esempio aveva sbagliato nell’ammettere l’esistenza di idee per ogni aspetto della realtà, anche per gli accidenti, ossia gli aspetti non essenziali, quindi non necessari delle cose. Per Aristotele invece esistevano i modelli ideali relativi soltanto alle sostanze ed essi si trovavano all’interno degli enti: in generale egli definì, con il termine sostanza, una realtà ontologicamente completa ed autosufficiente, causa di se stessa, che cioè poteva sussistere senza ricorrere ad altro per essere.
    Come vedremo, le sostanze per Aristotele coincidevano con gli enti naturali individuali, ad esempio un uomo, un animale o una pianta. Al contrario alcune caratteristiche o qualità di questi enti, come la loro altezza, il loro peso, il loro colore ecc. erano solo accidenti, ossia proprietà non essenziali. Ora, alla luce di questa distinzione, Aristotele rimproverò a Platone di aver ammesso l’esistenza delle idee anche per gli accidenti, che in effetti non avevano una realtà propria ed autonoma ma esistevano solo in relazione ad una sostanza. Se ad esempio l’individuo Socrate era la sostanza, il colore bianco della sua pelle era solo un accidente, cioè un aspetto possibile ma non necessario della sostanza Socrate; il bianco, essendo un accidente, non esisteva di per sé ma esisteva solo come qualità di una determinata sostanza.
    Platone quindi aveva certamente sbagliato nel sostenere che esistessero le forme ideali anche di questi aspetti accidentali. Egli inoltre aveva addirittura ammesso l’esistenza di modelli ideali degli enti artificiali, cioè prodotti dall’uomo (una casa, una sedia), oppure di modelli riguardanti le relazioni o le connessioni tra le cose (ad esempio il rapporto di uguaglianza o disuguaglianza): per Aristotele ciò non era ammissibile, in quanto le uniche forme ideali vere si riferivano solo agli enti naturali individuali, mentre i rapporti tra le cose e gli enti artificiali non avevano una realtà propria, essendo sempre in relazione a qualcos’altro. Per questa via si finiva addirittura per ammettere l’esistenza di idee riguardanti le pure e semplici negazioni (non uguale, non grande ecc.), il che era assurdo.
    Nell’ambito di queste critiche Aristotele sviluppò anche il famoso argomento del terzo uomo, a cui si è fatto cenno nel trattare le difficoltà incontrate da Platone.
    Per tutti questi motivi, nel sistema platonico, si era aperto un processo negativo di moltiplicazione all’infinito delle idee che, anziché spiegare la realtà, finiva col moltiplicarla all’infinito: la teoria della partecipazione e quella dell’imitazione non risolvevano dunque il dualismo ontologico che stava alla base delle difficoltà del platonismo; occorreva quindi superare e correggere tale dualismo. Inoltre anche la concezione platonica della dialettica risultava sbagliata.

    LA DIALETTICA

    Negli ultimi due trattati che formavano l’Organon (con questo termine fu indicato l’insieme degli scritti aristotelici dedicati in generale ai temi della logica), ossia i Topici e gli Elenchi sofistici, Aristotele si occupò complessivamente della dialettica, allontanandosi molto dalla posizione di Platone.
    Quest’ultimo aveva fatto coincidere la dialettica con la filosofia, anzi la dialettica era diventata la filosofia nella sua dimensione più elevata in quanto scienza suprema delle idee, conoscenza oggettiva dei loro rapporti reciproci, della loro comunicazione o della loro estraneità.
    Per Aristotele invece dialettica e scienza non si identificavano affatto: tra loro esisteva infatti la stessa differenza che c’era tra opinione e verità. Il filosofo greco pose una distinzione definitiva e netta tra la scienza, che egli indicò con la parola apodissi, e la dialettica: l’apodissi era il discorso propriamente scientifico, cioè dimostrativo, rigoroso e necessario, che perveniva a conclusioni certe e non aveva bisogno né di discussione né di approvazione.
    La dialettica invece era solo una tecnica discorsiva che serviva a sviluppare argomentazioni su qualsiasi problema, sia per sostenere una tesi sia per confutarla. Essa quindi costituiva una forma di conoscenza non dimostrativa, basata sulla probabilità, in quanto nasceva sempre da una discussione e da un dialogo, quindi da opinioni più o meno condivise. Nella dialettica risultava fondamentale il consenso degli interlocutori, mentre nell’apodissi la verità s’imponeva di per sé, per necessità dimostrativa, e non aveva bisogno quindi né di consenso né di discussione.
    Aristotele, contro Platone, negò quindi valore di verità alla dialettica, anche se ne riconobbe l’utilità e la funzione: infatti la dialettica era in primo luogo l’espressione della fondamentale ed insopprimibile esigenza umana di dialogo, di discussione, di confronto delle opinioni. Inoltre essa svolgeva una funzione propedeutica (= preparatoria) al discorso scientifico vero e proprio, nel senso che serviva a individuare gli argomenti da trattare e a selezionarne le possibili soluzioni; infine la dialettica faceva comprendere che non su tutto fosse possibile fare scienza, ossia che esistevano ambiti e questioni che, pur essendo significativi ed interessanti, producevano soltanto opinioni e non conoscenze certe e rigorose.
    I ragionamenti dialettici infatti, che Aristotele chiamò sillogismi dialettici, non erano dimostrativi e scientifici in quanto le loro premesse erano costituite appunto da opinioni, sebbene si trattasse di opinioni notevoli o autorevoli (èndoxa), ossia condivise da tutti i sapienti e competenti o dai più, cioè dalla maggior parte di essi. Inoltre, nell’ambito dei sillogismi dialettici, risultava fondamentale distinguere i diversi significati che le parole possedevano, dal momento che, se nel ragionamento si usavano gli stessi termini con significati diversi, il ragionamento stesso non era corretto.
    Era esattamente quello che facevano i sofisti, i quali non solo partivano da premesse molto discutibili, ma usavano anche in modo ambiguo le parole all’interno del medesimo sillogismo, costruendo così ragionamenti del tutto falsi ed ingannevoli (che Aristotele chiamerà sillogismi eristici, come vedremo).

    LA CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE

    Rispetto a Platone, Aristotele fu un filosofo di gran lunga più sistematico nel senso che egli sviluppò in maniera organica e completa tutte le discipline filosofiche, dando ad esse un rigoroso ordine logico ed un perfetto equilibrio.
    Gli interessi scientifici di Aristotele furono vastissimi, egli si occupò di tutto lo scibile allora conosciuto ed operò una prima vera classificazione del sapere, attraverso cui assegnò un posto ed una funzione ad ogni scienza, definendo con precisione il suo campo specifico.
    Nella Metafisica, uno dei suoi scritti più importanti, il filosofo classificò le scienze in tre grandi gruppi: le scienze teoretiche, le scienze pratiche e le scienze poietiche.
    Quelle teoretiche erano la metafisica, la fisica e la matematica: il loro oggetto, ossia ciò di cui trattavano, era indipendente dall’uomo, nel senso che l’uomo non lo produceva.
    Inoltre esse avevano un valore esclusivamente teorico, in quanto il loro fine era la contemplazione e la conoscenza pura e disinteressata, fine a se stessa; infine erano le sole discipline a meritare a pieno titolo il nome di scienza, inteso nel suo significato più proprio e rigoroso, ossia come conoscenza dimostrativa nella quale si partiva da premesse vere ed evidenti e si perveniva a conclusioni altrettanto certe e necessarie.
    Le scienze pratiche, ossia l’etica e la politica, avevano invece come oggetto un principio dipendente dall’uomo, cioè la sua volontà, le sue scelte, le sue azioni: esse quindi studiavano l’agire umano considerato sotto il profilo del bene da realizzare e del fine da raggiungere, poiché le azioni dell’uomo erano sempre orientate verso uno scopo. Le scienze pratiche però non erano dimostrative, ovvero non possedevano il rigore e la necessità delle scienze teoretiche, tanto che le conclusioni dei loro ragionamenti erano da considerare solo probabili.
    Le scienze poietiche infine, ossia l’arte e la retorica, avevano come oggetto l’uomo in quanto capace di produrre qualcosa di artificiale, bello o utile che fosse: ad esempio l’oggetto creato da un retore (un discorso) o da un artista (una statua) o da un artigiano (una sedia).
    Anche le scienze poietiche non erano dimostrative in quanto non possedevano quella necessità e quel grado di certezza proprie solo delle conoscenze teoretiche. Come si può notare in questa classificazione mancava la logica perché, secondo Aristotele, essa non era una scienza come le altre ma era piuttosto il fondamento, il metodo e lo strumento di tutte le scienze, le quali non sarebbero state possibili senza di essa.

    LA LOGICA FORMALE: TERMINI, PROPOSIZIONI, ENUNCIATI, ARGOMENTAZIONI

    La logica per Aristotele era dunque lo strumento (infatti, a partire dal I secolo a. C., le opere logiche aristoteliche furono indicate genericamente con il nome di Organon, che in greco significa appunto strumento) di cui le singole scienze si servivano per costruire giudizi e ragionamenti corretti e rigorosi. Nessuna scienza infatti poteva essere tale se non rispettava le leggi logiche, cioè le leggi del pensiero. Per questo la logica, secondo Aristotele, più che una scienza autonoma, era la premessa di ogni scienza, era cioè un metodo necessario per costruire ogni tipo di sapere.
    Nella storia della filosofia Aristotele è stato considerato il fondatore della logica intesa come la conoscenza delle leggi e delle regole universali del pensiero e del linguaggio dell’uomo. Il termine “logica” fu usato posteriormente ad Aristotele, probabilmente dagli stoici: egli invece chiamò questa disciplina con il termine di analitica (da anàlysis = scioglimento, risoluzione) poiché intendeva scomporre i ragionamenti e le proposizioni nei loro elementi costitutivi, nelle loro strutture atomiche.
    La parola logica derivava evidentemente da logos, uno dei termini usati già dai primi filosofi, in particolare da Eraclito, con un duplice significato: il logos era inteso sia come la parola o il discorso razionale sia come la legge universale del cosmo e della realtà. Con gli stoici il termine logica stette ad indicare soprattutto lo studio del pensiero, che si esprimeva tramite le proposizioni e i ragionamenti. Le principali opere logiche di Aristotele, comprese nell’Organon, furono: Categorie, De interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Elenchi sofistici. La logica di Aristotele fu in primo luogo una logica formale: essa cioè analizzò le proposizioni e le argomentazioni innanzi tutto dal punto di vista della loro correttezza formale, prescindendo dai contenuti.
    Pertanto quello che Aristotele si propose di studiare fu in primo luogo il meccanismo del pensiero e del linguaggio e non la verità dei contenuti, poiché di ciò si occupavano già le diverse scienze: a tale scopo Aristotele, nello studio delle argomentazioni, introdusse l’uso delle variabili al posto dei termini (termini = nomi e i predicati), sostituendoli con le lettere maiuscole dell’alfabeto greco.
    A questo punto è opportuno operare una distinzione fondamentale per comprendere bene quali fossero allora (e quali sono ancora oggi) gli oggetti specifici di questa disciplina scientifica: comunemente si usano i termini giudizio, enunciato e proposizione come se fossero la stessa cosa ma in realtà, secondo la logica contemporanea, tra essi sussiste una differenza significativa.
    Aristotele non esplicitò chiaramente tale distinzione, anche se essa fu implicita nel suo discorso. E’ stato G. Frege, un logico-matematico tedesco vissuto tra fine Ottocento e primo Novecento, ad introdurre la distinzione tra enunciato e proposizione.
    La proposizione (che nella tradizione filosofica è stata spesso designata con la parola “giudizio”, quindi i due termini sono da considerare sinonimi) indica il contenuto logico di una frase, quindi il suo significato; l’enunciato invece indica solo l’aspetto fisico di una frase, ossia i segni grafici o fonici che vengono utilizzati, che risultano variabili da lingua a lingua: quindi l’enunciato costituisce l’aspetto materiale (i segni appunto) di una proposizione, che a sua volta implica un contenuto logico. Da ciò si comprende facilmente che si possono avere due o più enunciati diversi che asseriscono però la stessa proposizione: infatti l’enunciato “Paola ama Alessandro” esprime lo stesso significato dell’enunciato “Alessandro è amato da Paola”. Quindi una identica proposizione può essere espressa materialmente da enunciati differenti.
    Anche se nella logica si usano alternativamente i termini enunciato e proposizione, occorre precisare che, su un piano molto generale, la scienza logica contemporanea studia le cosiddette leggi del pensiero attraverso i significati e i contenuti logici delle proposizioni, il che significa che non si potrebbe conoscere e studiare il pensiero astratto se esso non si materializzasse e non si esprimesse in proposizioni e enunciati linguisticamente strutturati. Questa stretta connessione tra pensiero e linguaggio era già presente in Aristotele, ma la logica contemporanea ne è maggiormente consapevole.
    Oltre che formale, la logica aristotelica fu anche una logica dei termini, in quanto studiò gli elementi atomici del discorso, vale a dire i termini, cioè i nomi e i predicati. Il filosofo in particolare si occupò delle connessioni che potevano essere stabilite tra i termini sia all’interno di una proposizione sia all’interno di un ragionamento (= concatenazione di proposizioni).
    I termini in Aristotele ebbero una doppia valenza: da un lato essi erano segni linguistici, cioè simboli fonetici e grafici convenzionali, diversi e variabili da lingua a lingua e da epoca ad epoca; dall’altro erano rappresentazioni o immagini mentali delle cose reali, cioè erano concetti logici, identici in tutti gli uomini e non variabili. Tuttavia, per quanto prevalentemente formale, la logica aristotelica si fondò sull’ontologia, cioè sull’ordine oggettivo proprio della realtà esterna al pensiero: esisteva la convinzione (comune a gran parte del pensiero greco) che il pensiero e il linguaggio riflettessero le strutture del mondo.
    Aristotele, infatti, come altri, ritenne che esistesse una perfetta corrispondenza tra il piano logico-linguistico e il piano ontologico-reale. Ciò significava che le leggi e le determinazioni del pensiero e del linguaggio erano anche le leggi e le determinazioni della realtà: pensiero e linguaggio erano una sorta di specchio che rifletteva le strutture oggettive del mondo esterno.
    Pertanto logica ed ontologia si implicavano reciprocamente, quindi ciò che era vero e valido sul piano logico era vero e valido anche sul piano ontologico: al rapporto logico sussistente tra soggetto e predicato corrispondeva il rapporto reale esistente tra sostanza e attributo nel mondo esterno.

    LA LOGICA DEI TERMINI UNIVERSALI: LA TEORIA DELLE CATEGORIE

    Nel suo trattato Categorie Aristotele cominciò a sviluppare la sua teoria logica trattando appunto delle cosiddette categorie: questa parola significava in greco predicato, ed il predicato era un termine, ossia un concetto, un elemento strutturale del pensiero e del linguaggio.
    Nelle Categorie quindi il filosofo si occupò di questi concetti (nomi e verbi) considerandoli singolarmente, cioè non in connessione tra loro: in altre parole si occupò dei singoli concetti e non delle proposizioni (= connessione di più concetti).
    Le categorie costituivano i predicati più universali dell’essere, cioè le modalità più generali attraverso cui l’essere si presentava e si declinava (Aristotele infatti le chiamò generi sommi): si trattava quindi di una teoria simile a quella dei generi sommi di Platone.
    Infatti, quando di un ente si chiedeva “che cos’è?”, si poteva rispondere in vari modi, cioè si potevano usare diverse categorie: ad esempio di Socrate si poteva dire in primo luogo che era sostanza (in quanto individuo naturale autosufficiente), la quale possedeva una quantità (50 kg), una qualità (bianco), una relazione (amico di), un luogo (in piazza), un tempo (ieri), una situazione o posizione (seduto), un’azione (cammina), una passione (è colpito da), un possesso o avere (gli indumenti). Queste dieci categorie rappresentavano dunque le dieci modalità più universali attraverso cui era possibile esprimere un qualsiasi giudizio e con cui quindi si conosceva e classificava ogni aspetto della realtà: esse erano infatti sia modi di essere della realtà sia termini (concetti) predicabili di un soggetto nell’ambito di un discorso. Fondamentale però era la distinzione tra la sostanza e le altre nove categorie: il concetto di sostanza fu alla base della logica e dell’ontologia di Aristotele.
    Abbiamo già detto cosa Aristotele intendesse con questo termine: la sostanza in generale era l’ente che aveva in se stesso la propria ragion d’essere, ossia l’ente che era causa di se stesso e che, per poter esistere, non aveva bisogno (metafisicamente, non fisicamente) di altro, quindi l’ente completo ed autosufficiente. Ad esempio un albero, per essere albero, non aveva bisogno di qualcos’altro: la sua natura di albero risultava del tutto sufficiente per definire la sua realtà. Per Aristotele questo ente sostanziale coincideva con quello che egli chiamò sostanza prima, ossia la sostanza vera e propria, che era costituita dagli enti naturali individuali (questo uomo, questo cavallo, questo albero ecc.). Aristotele introdusse anche il concetto di sostanza seconda, impropriamente considerata tale, che si riferiva ai generi ed alle specie: egli infatti, studiando le possibili connessioni esistenti tra le cose e i termini universali, notò che questi ultimi potevano indicare aspetti comuni a più individui, per cui si aveva la specie, oppure aspetti comuni a più specie, per cui si otteneva il genere.
    Il genere era il predicato (termine) indicante la classe più ampia di cui un soggetto faceva parte (nel caso di Socrate, esso era il predicato “animale”); la specie invece indicava quella parte del genere attraverso cui il soggetto veniva determinato più precisamente, più da vicino (nel caso di Socrate, il predicato “uomo”); la specie implicava quindi una differenza (specifica) in quanto, all’interno di un genere, si distingueva una specie da un’altra (nel caso di Socrate, “razionale”).
    Genere, specie e differenza specifica erano i tre predicati fondamentali per classificare e definire tutte le realtà: per avere la definizione di un ente naturale occorrevano dunque necessariamente questi tre predicati. Occorre precisare che la definizione di qualcosa esprimeva la sua essenza, cioè la sua natura profonda, quindi definizione=essenza=natura.
    Genere e specie erano dunque sostanze seconde, sostanze improprie, in quanto indicavano una realtà non autosufficiente, dal momento che, per esistere, avevano bisogno delle sostanze prime a cui aderire.
    Quindi solo la sostanza prima (Socrate) risultava autosufficiente, esistente per se stessa e non predicabile di altro:infatti nel discorso, le sostanze prime fungevano solo da soggetto e mai da predicato; invece le sostanze seconde e le altre categorie potevano fungere sia da soggetto sia da predicato.
    Nell’ambito dei rapporti esistenti tra soggetto e predicato si davano, oltre al genere e alla specie, anche altre due relazioni: quella del proprio e quella dell’accidente.
    Il proprio (o proprietà) era un predicato del soggetto che non faceva parte della sua essenza ma ne indicava tuttavia una proprietà che poteva appartenere solo e soltanto ad esso (nel caso di Socrate, l’attributo “studioso”). L’accidente invece era un predicato che poteva appartenere o non appartenere al soggetto, nel senso che ne indicava una qualità non essenziale: gli accidenti quindi erano attributi che non definivano l’essenza di un ente (nel caso di Socrate, l’attributo “bianco”).

    LA LOGICA DELLE PROPOSIZIONI

    Mentre nelle Categorie il filosofo aveva analizzato i termini universali presi per sé, singolarmente, cioè senza connessione, nel De interpretazione invece Aristotele studiò i termini “con connessione”, vale a dire collegati tra loro nei discorsi, nelle proposizioni. I termini infatti, presi da soli, non costituivano una proposizione (giudizio) e non erano pertanto nemmeno valutabili come veri o come falsi: essi non implicavano né che una cosa esistesse né che non esistesse. Solo la connessione dei termini creava quelle proposizioni e quegli enunciati su cui si poteva esprimere un giudizio di verità e di falsità.
    La connessione di due o più termini costituiva dunque la proposizione: quest’ultima poteva essere di tipo assertivo o dichiarativo (o enunciativo), quando asseriva o negava, cioè descriveva, un evento o uno stato di cose, o di tipo non assertivo, quando non descriveva e non asseriva uno stato delle cose. Infatti esistevano proposizioni contenenti domande, preghiere, invocazioni, dubbi, probabilità ed esclamazioni ecc. le quali appunto non descrivevano nulla di reale ma esprimevano solo desideri e intenzioni. Il filosofo chiamò apofantiche (cioè valutabili come vere o come false) le proposizioni del primo tipo e semantiche quelle del secondo tipo (esse infatti erano semplicemente significative di qualcosa ma non erano valutabili come vere o false).
    Le proposizioni semantiche non costituivano oggetto della logica proprio perché non potevano essere valutate secondo il criterio della verità o falsità. Aristotele inoltre classificò le proposizioni enunciative secondo la quantità, la qualità e la modalità:
    Qualità: Affermative
    Negative

    Quantità: Universali (tutti gli uomini sono…)
    Particolari (alcuni uomini sono…)
    Individuali (Socrate è…)

    Modalità: Possibili (è possibile che…)
    Impossibili (è impossibile che…)
    Contingenti
    Necessarie

    Da un punto di vista qualitativo tutte le proposizioni potevano essere affermative o negative quando affermavano o negavano un determinato rapporto tra soggetto e predicato; da un punto di vista quantitativo le proposizioni erano universali quando l’attributo si predicava della totalità dei soggetti, particolari quando l’attributo si predicava solo di qualche soggetto, individuali quando l’attributo si predicava di un solo soggetto. Da un punto di vista modale i giudizi potevano esprimere una possibilità, consistente in un soggetto che ancora non è ma può essere; una impossibilità, consistente in un soggetto che non è e non può essere; una contingenza, consistente in un soggetto che è ma può non essere; una necessità, consistente in un soggetto che è e non può non essere (si può definire inoltre la necessità come “ciò il cui contrario è contraddittorio”).
    Aristotele studiò in particolare le proposizioni secondo la qualità e la quantità.

    LOGICA DEL RAGIONAMENTO: IL SILLOGISMO E IL QUADRATO LOGICO

    Nei due trattati Analitici primi e Analitici secondi il filosofo si occupò dello studio del ragionamento o delle argomentazioni, ossia delle leggi logiche che stavano alla base della corretta concatenazione di più proposizioni. Aristotele chiamò con il termine sillogismo queste argomentazioni. La struttura del sillogismo era basata sulla connessione di tre termini, due dei quali erano detti estremi (uno chiamato maggiore, ossia indicante la classe più ampia, e uno minore) ed uno medio.
    L’estremo maggiore conteneva in sé il termine medio e l’estremo minore: il medio si chiamava così proprio per la sua posizione intermedia tra i due estremi. Il problema del sillogismo consisteva dunque nello stabilire quale tipo di rapporto esistesse tra i due termini estremi, ossia se un certo predicato (P) potesse essere o non essere connesso con un certo soggetto (S): per sapere dunque se e come tale predicato appartenesse al soggetto, bisognava appunto trovare un terzo termine, quello medio (M) che, essendo a sua volta connesso sia con P che con S, rendeva possibile il collegamento tra P ed S. Si perveniva così alla costruzione di un ragionamento costituito da tre proposizioni, contenenti i tre termini, di cui le prime due erano le premesse (una maggiore e l’altra minore) e la terza la conclusione.
    Il sillogismo costituiva dunque un ragionamento di tipo deduttivo, in cui la conclusione conseguiva dalle premesse. Aristotele però si accorse che non in tutti i sillogismi la conclusione conseguiva necessariamente: esistevano cioè sillogismi in cui la conclusione non derivava necessariamente dalle premesse.

    Un ragionamento sillogistico assumeva pertanto questa forma:

    Se mortale (P) si predica di tutti gli uomini (M) (premessa maggiore)
    e uomo (M) si predica di tutti i greci (S) (premessa minore)
    allora i greci (S) sono mortali (P) (conclusione)

    Se tutti gli uomini (M) sono mortali (P)
    e i greci (S) sono uomini (M) (altra formulazione)
    allora i greci (S) sono mortali (P)

    Questa fu la prima figura, quella classica, del sillogismo aristotelico, in cui il termine medio (uomo) faceva da soggetto nella prima premessa e da predicato nella seconda premessa ed in cui sia le due premesse che la conclusione erano proposizioni universali affermative.
    Aristotele studiò tre figure sillogistiche (a cui poi i logici posteriori aggiunsero una quarta figura). Nella seconda figura il termine medio era predicato in entrambe le premesse:
    Se nessun giapponese è europeo (M)
    e tutti gli italiani sono europei (M)
    allora nessun italiano è giapponese

    Nella terza figura il temine medio era sempre soggetto:

    Se tutti gli italiani (M) sono europei
    e qualche italiano (M) è cattolico
    allora qualche europeo è cattolico

    Nella quarta figura invece, quella non aristotelica, il termine medio era predicato nella premessa maggiore e soggetto nella premessa minore (il contrario della prima figura). Ogni singola figura sillogistica comprendeva una molteplicità di modi: il modo indicava una variazione del sillogismo determinata dalle proposizioni che lo componevano, cioè dipendeva ad esempio dal fatto che le premesse fossero entrambe universali o particolari oppure una universale e una particolare o entrambe affermative o negative oppure una affermativa e una negativa. Poiché erano possibili solo quattro tipi di proposizione (A, E, I, O), combinandoli tra loro si ottenevano in tutto 64 modi sillogistici (16 per figura). Il sillogismo era una deduzione essenzialmente formale, nel senso che era importante in primo luogo la correttezza nel meccanismo logico di collegamento tra i termini, prescindendo dai contenuti dei giudizi stessi. Pertanto la validità (formale) di un sillogismo non si identificava immediatamente con la sua verità: un sillogismo era valido se fondato su un corretto collegamento dei suoi termini e non se erano veri i giudizi formati con quei termini. Abbiamo già detto che non in tutti i sillogismi la conclusione scaturiva necessariamente dalle premesse. Infatti per Aristotele non tutti i modi sillogistici erano validi, tali cioè che le conclusioni venissero dedotte necessariamente dalle premesse. Anzi la maggior parte dei modi sillogistici erano inconcludenti, cioè non concludevano necessariamente. Nelle tre figure da lui analizzate, il filosofo individuò solo 15 modi validi. Sulla base delle classificazioni aristoteliche i logici medioevali costruirono il cosiddetto quadrato logico o quadrato degli opposti, che visualizzava i rapporti tra le proposizioni di un sillogismo.

    Schema del quadrato logico


























    Le lettere del quadrato designavano le tipologie dei quattro tipi di proposizioni che si potevano costruire: A indicava le universali affermative, E le universali negative, I le particolari affermative, O le particolari negative. Queste quattro lettere non furono scelte a caso ma furono derivate dalle prime due vocali del verbo latino affirmo (A - I) e dalle prime due del verbo nego (E - O).
    I grandi logici del Medioevo notarono che tra i giudizi A ed E c’era un rapporto di contrarietà mentre tra i giudizi A ed O e I ed E c’era un rapporto di contraddizione.
    Due giudizi sono contrari quando non possono essere entrambi veri ma possono essere invece entrambi falsi, nel senso che può esistere un terzo caso che sfugge ad essi. Infatti, le due proposizioni “tutti i sassi sono bianchi” (universale affermativa) e “nessun sasso è bianco” (universale negativa) sono entrambe false perché qualche sasso è bianco e qualche altro no. Il rapporto di contrarietà implica quindi l’esistenza di una terza possibilità, ovvero di un giudizio ulteriore rispetto ai due contrari.
    Due giudizi sono invece contraddittori quando non sono né entrambi veri né entrambi falsi, ma necessariamente uno è vero e uno falso (non c’è una terza possibilità, tertium non datur). Ad esempio sono contraddittorie le due proposizioni “tutti gli uomini sono mortali” (universale affermativa) e “qualche uomo non è mortale” (particolare negativa).
    Inoltre le proposizioni I e O risultavano subcontrarie: sono subcontrarie quelle proposizioni particolari che hanno lo stesso termine-soggetto e lo stesso termine-predicato ma differiscono nella qualità, ossia sono l’una affermativa e l’altra negativa (es.: “alcuni studenti sono bravi” e “alcuni studenti non sono bravi”). Esse, come si nota dall’esempio, possono essere entrambe vere ma non possono essere entrambe false (l’opposto delle contrarie).
    Infine le proposizioni A e I ed E e O risultavano tra loro subalterne: si dicono subalterne quelle proposizioni che hanno lo stesso termine-soggetto e lo stesso termine-predicato ma differiscono tra loro nella quantità, ossia l’una è universale e l’altra è particolare.
    Nella relazione di subalternanza la verità della proposizione particolare può essere inferita (= dedotta) dalla verità di quella universale ma non è possibile fare il contrario (es.: “tutti gli studenti sono rompiscatole” e “alcuni studenti sono rompiscatole”).

    SILLOGISMI DIALETTICI, APODITTICI ED ERISTICI

    Analizzando i sillogismi non più sotto il profilo della correttezza formale ma dal punto di vista della loro verità o falsità, quindi della corrispondenza e conformità dei loro contenuti alla realtà esterna, Aristotele distinse tra sillogismo dialettico, apodittico ed eristico.
    Abbiamo già accennato al sillogismo dialettico parlando della concezione che il filosofo ebbe della dialettica in generale. Abbiamo detto infatti che il sillogismo dialettico partiva dalle èndoxa, ossia da premesse autorevoli condivise da tutti i sapienti o dalla maggioranza, che comunque non erano verità assolute ed indiscutibili. Da premesse ragionevoli e probabili venivano ricavate deduttivamente conclusioni altrettanto probabili e ragionevoli. Era apodittico invece il sillogismo scientifico vero e proprio, in quanto partiva da premesse vere e certe (che tutti erano costretti a riconoscere come tali) e giungeva a conclusioni altrettanto vere e certe.
    Era eristico invece il sillogismo usato prevalentemente dai sofisti, in quanto essi ponevano delle premesse false e ingannevoli e giungevano a conclusioni altrettanto false e ingannevoli.
    Per Aristotele quindi si pose il problema della verità dei sillogismi: per fare scienza non bastava infatti che la conclusione del sillogismo fosse dedotta rigorosamente e correttamente dalle premesse, ma era necessario che ambedue le premesse fossero vere.
    Occorreva dunque ricercare quelle premesse indiscutibili e certe su cui fondare tutti i procedimenti deduttivi della scienza. Tali premesse quindi dovevano essere verità indimostrabili (anapodittiche), originarie ed evidenti per sé: solo con questo tipo di premesse era possibile costruire sillogismi apodittici, cioè veramente scientifici. Aristotele chiamò tali premesse assolutamente evidenti ed indimostrabili principi primi della scienza.
    Esistevano per il filosofo alcuni principi primi comuni a tutte le scienze ed altri invece propri di ogni singola scienza.
    Principi primi comuni erano senz’altro i tre principi logici fondamentali (identità, non contraddizione, terzo escluso), ossia tre verità logiche universali e valide in qualsiasi ambito, che stavano alla base di tutto il sapere, di tutti i discorsi:
    1) identità (A = A): ogni cosa è uguale a se stessa.
    2) non contraddizione (A  non A): ogni cosa non può essere contemporaneamente uguale a se stessa e al suo contrario.
    3) terzo escluso (o A o non A): tra due cose contraddittorie non c’è una terza possibilità, o è vera l’una o è vera l’altra.
    Esistevano inoltre dei principi primi propri di ogni scienza, come ad esempio le definizioni o quelli che oggi si chiamano postulati. Ogni disciplina scientifica richiedeva l’esistenza di proprie definizioni e di propri postulati. Come abbiamo già detto, le definizioni erano verità essenziali in quanto definivano la natura specifica di un ente: ad esempio la definizione di triangolo (“figura piana avente tre lati e tre angoli”) esprime l’essenza di questo ente geometrico. Si possono dare altri esempi di definizioni geometriche: il “punto è ciò che non ha parti”, la “linea è lunghezza senza larghezza” ecc. Senza definizioni e postulati non era possibile operare deduzioni rigorose ma sia le definizioni che i postulati non erano posseduti dalla mente in modo a priori, in modo innato, come invece aveva creduto Platone (innatismo = i modelli ideali e i principi primi innati nell’anima): bisognava ricavarli dall’esperienza, ossia attraverso un procedimento induttivo. Occorreva quindi integrare la deduzione sillogistica con l’induzione, poiché solo quest’ultima metteva a contatto con le cose reali da cui in ultima analisi si originavano tutte le conoscenze umane.
    Pertanto la deduzione rimandava all’induzione.

    L’INDUZIONE E LA DEDUZIONE

    Aristotele fu il primo filosofo a definire chiaramente la distinzione tra deduzione e induzione. Oggi noi sappiamo che induzione e deduzione sono i due procedimenti logici usati dalla mente umana: l’uomo pensa e ragiona in modo deduttivo e in modo induttivo.
    Aristotele fu appunto il filosofo che colse chiaramente la differenza tra i due procedimenti, individuandone alcune caratteristiche.
    Il discorso che noi ora svilupperemo però, pur presupponendo alcune teorie di Aristotele, va oltre esse in quanto vuole essere una trattazione dell’induzione e della deduzione in generale, una trattazione quindi valida ancora oggi.
    Si possono dare due definizioni di induzione e deduzione: secondo la prima, il ragionamento induttivo consiste nel passare gradualmente da affermazioni di carattere particolare ad affermazioni di carattere sempre più generale, mentre la deduzione opera in senso contrario.
    A questo proposito Aristotele ritenne che fosse stato Socrate, con la sua ricerca delle definizioni attraverso l’analisi dei casi particolari, l’inventore inconsapevole del metodo induttivo.
    Tuttavia questa prima distinzione tra induzione e deduzione deve essere considerata vera solo in parte: infatti i filosofi moderni, tra cui soprattutto l’inglese John Stuart Mill (1806-1873), hanno notato che l’induzione in effetti non passa (o comunque non passa sempre) da frasi particolari a frasi generali, in quanto le stesse conclusioni del ragionamento induttivo possono essere anch’esse proposizioni di carattere particolare (il filosofo inglese dirà che il ragionamento induttivo va “dal particolare al particolare”, nel senso che la conclusione generale altro non è che la sintesi finale, il riassunto, di tutta una serie di esperienze particolari).
    Pertanto oggi si preferisce integrare la differenza a cui si accennava sopra mettendo in evidenza che nella deduzione, date certe premesse, che possono essere vere o false, le conclusioni sono necessarie, mentre le conclusioni del ragionamento induttivo sono soltanto probabili, quindi più o meno vere, anche se le premesse sono vere.
    Infatti, studiando il sillogismo, abbiamo visto che se si parte da premesse riconosciute come vere e si applicano le regole della logica, collegando correttamente premesse e conclusioni (in termini tecnici la connessione tra premesse e conclusioni si chiama inferenza, ossia implicazione, passaggio logico), allora le conclusioni devono risultare necessariamente vere. Quindi l’inferenza deduttiva è necessaria.
    L’induzione invece è un tipo di procedimento nel quale la connessione tra le premesse e la conclusione non si basa sulla necessità, ma solo sulla probabilità: quindi l’inferenza induttiva è solo probabile (maggiore è il grado di certezza delle premesse e maggiore sarà il grado di probabilità delle conclusioni).
    Infatti nel ragionamento induttivo c’è sempre la possibilità (teorica) che si dia anche un solo caso contrario a quanto affermato nelle premesse: così ad esempio noi possiamo affermare induttivamente che “tutti i corvi sono neri”, ma non possiamo escludere in assoluto che oggi o domani possa manifestarsi l’esistenza di un “corvo bianco” che invalida la nostra affermazione.
    Una ulteriore differenza tra induzione e deduzione è data dal rapporto con l’esperienza: mentre la deduzione logica prescinde dai dati empirici, in quanto applica solo le leggi formali del pensiero, collegando correttamente un predicato ad un soggetto, considerati astrattamente, l’induzione invece implica un rapporto necessario con l’esperienza e produce quindi un arricchimento delle conoscenze. Il ragionamento induttivo infatti si basa sull’osservazione costante dei fenomeni e dei casi che si verificano in natura o nella realtà, da cui vengono acquisite sempre nuove informazioni: l’inferenza induttiva quindi fa conoscere qualcosa che non si sapeva prima e quindi va oltre le conoscenze già possedute (per questo molti filosofi diranno “la sapienza è figlia dell’esperienza”). Inoltre il ragionamento induttivo implica il principio dell’uniformità (o regolarità) dei fenomeni e dei fatti: l’induzione infatti si basa sull’osservazione di un certo numero di casi in cui un fenomeno si è verificato e presuppone che esso si possa verificare allo stesso modo anche in futuro. L’induzione quindi implica che i fatti tendano a ripetersi in modo costante, regolare e uniforme.
    Ritornando ad Aristotele, egli notò che mentre nel sillogismo deduttivo il termine medio aveva valore di connessione necessaria tra premessa e conclusione, nell’induzione invece esso (il termine medio) non si presentava con questo carattere di necessità ma figurava come un semplice dato di fatto. Ad esempio se si confronta questo sillogismo “tutti gli uomini sono animali” (prima premessa), “tutti gli animali sono mortali” (seconda premessa), allora “tutti gli uomini sono mortali” (conclusione), con il seguente ragionamento induttivo “l’uomo e il cavallo sono animali longevi” (prima premessa), “l’uomo e il cavallo sono animali senza ali” (seconda premessa o secondo termine), allora “gli animali senza ali sono longevi” (conclusione), si nota che il termine medio del sillogismo deduttivo (animale) costituisce la sostanza necessaria, l’essenza, la causa profonda della connessione tra i due termini estremi (uomo e mortale), nel senso che l’uomo non sarebbe tale se non fosse mortale; invece nel ragionamento induttivo il termine medio (senza ali) non esprime una causa sostanziale dell’essere animale ma semplicemente un dato di fatto ricavato dall’osservazione.
    Per tale ragione Aristotele ritenne che l’induzione fosse sempre e comunque inferiore alla deduzione, anche se risultava più ricca di quest’ultima in quanto faceva riferimento diretto all’esperienza: la vera scienza quindi non poteva essere induttiva ma doveva essere invece necessaria, deduttiva e dimostrativa.
    Tuttavia l’induzione, secondo Aristotele, era a sua volta fondamentale per la ricerca scientifica in quanto essa, presupponendo il rapporto diretto con l’esperienza, procurava quel materiale necessario senza il quale l’uomo non avrebbe posseduto alcuna conoscenza e non avrebbe potuto fare scienza, dal momento che era proprio il mondo a fornire quei dati e quelle informazioni su cui si basava il processo conoscitivo. In altre parole, senza l’induzione empirica, la mente umana non avrebbe avuto conoscenze e non avrebbe potuto nemmeno costruire sillogismi: in ultima analisi i principi primi comuni e propri di tutte le scienze, quindi le definizioni, gli assiomi e i postulati derivavano per astrazione da procedimenti induttivi. In questo senso si è parlato di un empirismo aristotelico: tutte le conoscenze umane, anche quelle più astratte, hanno la loro origine dall’esperienza (esperienza = rapporto del soggetto con i fenomeni del mondo esterno e con i fenomeni interiori), senza la quale la mente sarebbe una tabula rasa (vedi gnoseologia).

    LA FISICA: LA SCIENZA DELLA NATURA

    Dopo aver stabilito, nelle opere di logica, quali fossero le caratteristiche e i procedimenti propri della scienza, Aristotele rivolse la sua attenzione in primo luogo allo studio della natura. Il filosofo, diversamente dai sofisti e da Platone, era convinto che fosse possibile elaborare una rigorosa scienza della natura, e tale scienza era appunto la fisica (o filosofia della natura).
    Platone invece, come abbiamo visto, aveva ritenuto che l’indagine sulla natura non desse luogo ad una conoscenza certa e rigorosa ma solo ad un discorso puramente verosimile, dal momento che per lui la natura non costituiva la vera realtà ma solo la copia imperfetta del mondo delle idee. Essa appariva agli occhi di Platone come il regno del mutamento incessante che, in quanto tale, non poteva essere oggetto di vera conoscenza, poiché quest’ultima riguardava solo ciò che era stabile ed immutabile (le idee). Al contrario Aristotele ritenne che si potesse fare scienza del divenire, dal momento che esso non era affatto un mondo illusorio e apparente (come lo era per Parmenide e per Platone) e si basava altresì su principi e leggi universali e permanenti. La fisica era appunto quella scienza che aveva come oggetto gli enti della natura e il loro mutamento, di cui si potevano conoscere i principi, le cause prime, gli elementi originari.
    La fisica dunque ebbe per Aristotele piena dignità di scienza proprio perché era possibile individuare le cause generali degli enti e del loro divenire: infatti la scienza consisteva appunto nella conoscenza delle cause, cioè dei principi, di un ente. Occorre precisare tra l’altro che il grande filosofo coltivò numerosi interessi scientifici, studiando non solo la fisica e l’astronomia ma anche la biologia, la zoologia, la botanica, la metereologia ecc.
    Il testo fondamentale in cui Aristotele trattò la fisica si chiamò appunto Physica, suddiviso in 8 libri, ma si possono considerare opere di fisica anche il De caelo, il De generatione et corruptione, i Metereologica, e in generale i trattati di biologia, tutti testi in cui vennero considerati e studiati i diversi aspetti del mondo naturale.
    Nel secondo libro della sua Fisica Aristotele espresse il suo concetto di natura, ossia indicò cosa egli intendeva per natura: la natura era data dall’insieme dei corpi viventi e non viventi, ossia dalle piante, dagli animali e dai quattro elementi semplici ed indivisibili come la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria.
    La caratteristica fondamentale degli enti naturali era la loro tendenza innata al mutamento o alla quiete, ossia la capacità di mutare o di resistere al mutamento.
    Per questo gli enti naturali possedevano, secondo la definizione di Aristotele, il “principio interno del moto e della quiete”, essi cioè avevano in se stessi il principio del loro mutare o del loro persistere in uno stato di quiete. Essi erano quindi molto diversi dagli enti artificiali (= costruiti dall’uomo), i quali invece non avevano tale principio in se stessi ma in altro, cioè nella capacità umana di produrre appunto qualcosa di artificiale. Perciò era naturale tutto ciò che nasceva, cresceva, si riproduceva e comunque si muoveva da sé. Ricercando le cause degli enti e dei processi naturali, il grande filosofo riuscì ad individuare tre principi del divenire (il divenire era appunto la caratteristica fondamentale della natura).
    Si trattava precisamente di tre elementi (elemento = principio interno), ossia del sostrato, della privazione e della forma. Il sostrato costituiva l’inizio del processo e si presentava come un qualcosa di indeterminato, ossia come una sorta di materia amorfa, un materiale plasmabile che rendeva possibile il divenire in quanto tendeva ad assumere una forma determinata.
    Il concetto di sostrato amorfo implicava dunque necessariamente quello di privazione, ossia di mancanza, nel senso che il sostrato, proprio perché mancante di forma, si predisponeva ad assumerne una, provocando così il divenire, la trasformazione. La forma infatti era appunto il terzo elemento, quello che chiudeva il processo, in quanto essa realizzava lo scopo verso cui tendeva il sostrato, il quale assumeva finalmente un aspetto determinato.
    Aristotele quindi identificò il sostrato con la materia, e considerò quest’ultima sia come realtà amorfa, informe, disordinata, disarmonica, sia come potenza. Essa era potenza in quanto conteneva in sé la possibilità di assumere una determinata forma, di acquisire ciò di cui era priva. La forma invece costituiva l’elemento di ordine, di perfezione, di compiutezza, di determinazione, di armonia.
    Rispetto alla materia intesa come potenzialità, la forma era atto, cioè attuazione, realizzazione della possibilità, compimento del processo: l’atto era quindi l’acquisizione di quella forma di cui la materia-sostrato era priva ma verso cui tendeva.
    Ad esempio il seme era materia, era potenza rispetto alla pianta, che costituiva invece la forma, l’atto, il seme cioè era la pianta in potenza. Oppure il blocco di marmo era il sostrato-materia potenziale rispetto a cui la statua costituiva l’atto, ossia l’acquisizione della forma finale.
    Pertanto tutto il divenire della natura non era altro che un continuo passaggio dalla potenza all’atto, dalla materia alla forma: ogni materia acquisiva una forma, ogni possibilità diventava attuazione, ma da ogni forma nasceva una nuova materia (un organismo morto era solo materia), da ogni attuazione nascevano nuove potenzialità.

    Nell’esporre la sua teoria fisica Aristotele parlò di quattro specie di movimento-divenire, a seconda che lo si riferisse alla sostanza, alla quantità, alla qualità, al luogo. Il movimento rispetto alla sostanza consisteva nel processo di nascita e morte o generazione e corruzione; il movimento rispetto alla quantità consisteva in un aumento o diminuzione; quello rispetto alla qualità consisteva nell’alterazione; quello rispetto al luogo consisteva nella traslazione o moto locale.
    Studiando quest’ultimo tipo di moto, Aristotele elaborò una concezione che fu alla base della meccanica antica e medioevale: sulla terra esisteva solo il movimento rettilineo (mentre nel cielo, come vedremo, c’era il moto circolare), che avveniva in due direzioni: verso l’alto e verso il basso.
    Da qui nacque la teoria dei luoghi naturali: infatti i quattro elementi (terra, aria ecc.) si muovevano verso i loro luoghi naturali che erano, per terra e acqua, le posizioni più basse, tendenti cioè verso il centro della terra, e per aria e fuoco gli strati più elevati della sfera terrestre. Il peso spingeva acqua e terra verso il basso, la leggerezza invece determinava il movimento verso l’alto di aria e fuoco.
    Questo spiegava perché il fuoco tendesse a salire naturalmente verso l’alto e perché l’acqua, al contrario, tendesse a scendere.
    Sulla terra, oltre a questo movimento naturale, esisteva anche il moto violento, che si verificava tutte le volte che un agente esterno spingeva un corpo contro la sua direzione naturale (lanciare un sasso o sollevare un oggetto sono esempi di moto violento).
    Nell’esporre la teoria della materia abbiamo parlato dei quattro elementi primitivi, qualitativi (nel senso che costituivano essenze qualitativamente diverse tra loro) e indivisibili, ossia aria, acqua, terra e fuoco: ogni ente naturale era composto da una particolare combinazione dei quattro elementi. Aristotele infatti respinse l’atomismo di Democrito che, a suo avviso, non rendeva ragione del moto verso i luoghi naturali: infatti, se tutto fosse stato costituito da atomi, avrebbe potuto anche verificarsi che una grande massa di aria e fuoco sarebbe stata più pesante di una più piccola massa di terra e acqua, impedendo quindi a questi due ultimi elementi di depositarsi più in basso, di raggiungere cioè il loro luogo naturale, e impedendo altresì ad aria e fuoco di levarsi verso l’alto. In altre parole, se fosse stata vera la teoria degli atomi, tutta la materia sarebbe stata pesante e nulla sarebbe stato abbastanza leggero da potersi sollevare.
    La teoria dei tre principi del mutamento non esaurì il discorso sulle cause prime che agivano in natura in quanto Aristotele parlò anche di quattro cause. Esistevano cioè quattro cause generali e originarie che generavano e governavano tutti i processi naturali. In sostanza questa teoria della quattro cause fu una sorta di rielaborazione ed estensione di quella dei tre principi: l’una implicava l’altra e viceversa.
    Le quattro cause erano:
    1) quella materiale, indicante tutto ciò da cui un ente derivava o era costituito, ovvero la sua materia;
    2) la causa formale, indicante appunto tutto ciò che era forma o modello di qualcosa oppure ciò che costituiva la natura propria dell’ente stesso (l’essenza o la forma del cavallo, l’essenza o la forma della pietra);
    3) la causa efficiente o motrice, indicante tutto ciò che produceva e causava il movimento o la quiete, quindi tutto ciò che riguardava le azioni (senza tale fattore agente non poteva aversi alcuna trasformazione);
    4) c’era infine la causa finale, indicante tutto ciò che costituiva il fine in funzione del quale avvenivano i mutamenti: ogni azione tendeva ad uno scopo, ogni ente realizzava una propria finalità.
    Tale finalità poteva essere sia intrinseca, nel senso che ogni cosa era portata a realizzare compiutamente la propria natura (un cane “vuole” essere cane, tende verso la propria natura), sia estrinseca, nel senso che ogni cosa era mezzo per altre cose, era funzionale alla vita degli altri enti, così come la sedia serve all’uomo o le piante servono agli animali ecc.
    Le cause finali definivano dunque la struttura organica del mondo, il suo finalismo, il suo essere cioè un organismo in cui nulla risultava inutile e superfluo e in cui ogni parte, ogni singolo ente (organo) realizzava se stesso in funzione del tutto, da cui non poteva prescindere (il mondo era quindi un immenso organismo).
    La visione della natura di Aristotele fu dunque decisamente finalistica, in quanto poggiò sulla convinzione che nella natura agissero dei fini interni che tendevano al pieno sviluppo di tutti gli enti. Il filosofo dunque respinse il meccanicismo di Democrito, secondo cui tutto avveniva per una necessità meccanica cieca e casuale. Per Aristotele invece la casualità era una fenomeno del tutto irrilevante, in quanto, pur non negando che potessero accadere processi finalistici mancati, non riusciti, imprevisti (in questo senso casuali), tuttavia la natura agiva per lo più o sempre secondo un ordine costante e regolare e gli enti erano costruiti come se fossero stati fatti ad arte, secondo un piano intelligente, ossia secondo un fine.
    A proposito delle quattro cause, Aristotele notò che negli organismi naturali esse si riducevano di fatto a due, poiché la causa formale unificava in sé quella efficiente e quella finale: ad esempio la forma (= causa formale o natura) di un animale funzionava anche come causa efficiente e come causa finale, le tre cause cioè coincidevano. Questa riduzione però non valeva per gli enti artificiali, giacché in essi la causa formale, quella efficiente e quella finale risultavano distinte.
    Pertanto il divenire naturale era spiegabile prevalentemente in termini di causa formale e causa materiale, cioè di forma e materia: la materia costituiva il sostrato sensibile, la forma era l’elemento intellegibile.

    LA METAFISICA O FILOSOFIA PRIMA

    La metafisica di Aristotele non può essere disgiunta dalle teorie fisiche, dal momento che le due discipline erano (e sono) complementari ed inevitabilmente il discorso di fisica sconfinava nella metafisica e viceversa: e infatti, come vedremo, alcune teorie fisiche vennero riprese nell’ambito del discorso metafisico.
    Sui rapporti esistenti tra fisica e metafisica il filosofo greco aveva le idee molto chiare, nel senso che egli era convinto che al di sopra della fisica e di tutte le altre scienze ci fosse senz’altro la filosofia prima, il nome con cui Aristotele indicò la metafisica (egli infatti non usò mai il temine metafisica, che fu invece usato dai suoi discepoli o dal primo editore dei suoi trattati). La famosa opera Metaphysica non fu scritta da Aristotele secondo un piano preciso ed organico, in quanto le diverse trattazioni che la composero (14 libri) furono scritte in momenti diversi e con scopi diversi.
    Perché era necessario occuparsi di metafisica? Perché, secondo il filosofo, la natura, ossia la fisica, non esauriva tutta la realtà, in quanto esisteva una dimensione del reale che andava oltre i puri e semplici enti naturali. Bisognava costruire dunque un sapere che riguardasse l’essere in generale, astratto, universale, che implicava sì tutti gli enti esistenti e i loro aspetti, ma non si fermava alla conoscenza particolare di essi. La scienza (o sapienza) che aveva come oggetto un tale essere era appunto la filosofia prima (rispetto a cui la fisica si configurava come filosofia seconda), che costituiva la forma più alta di conoscenza.
    Aristotele definì infatti la metafisica come la “scienza dell’essere (o dell’ente) in quanto essere” proprio perché il suo oggetto era l’essere in quanto tale, non un particolare genere di enti, come quelli di cui si occupavano le scienze particolari.
    Di questo essere in quanto essere la metafisica cercava le cause prime, dal momento che la conoscenza di qualcosa implicava sempre e comunque la conoscenza delle sue cause: scienza dell’essere in quanto essere e scienza delle cause prime della realtà costituivano dunque due definizioni complementari.
    Lo studio dell’essere in quanto essere coincise in particolare con lo studio delle sostanze prime, che costituivano appunto gli enti ontologicamente autosufficienti, autonomi, completi, che non avevano bisogno di altro per essere.
    Il concetto di sostanza prima fu fatto coincidere con quello di sinolo: il sinolo infatti era la perfetta unità di materia e forma quale si realizzava negli individui naturali (l’albero, il cane, l’uomo ecc.). Diversamente da Platone, che aveva posto la forma (ideale) fuori dalla materia, per Aristotele invece materia e forma costituivano un’unica, indissolubile realtà, quella del sinolo (dal greco synolon) appunto.
    Ogni sostanza individuale (cioè ogni ente individuale naturale) possedeva dunque un elemento materiale-sensibile ed un elemento formale-intellegibile: ma questa distinzione era solo logica, era cioè valida solo sul piano del pensiero, in quanto nella realtà i due elementi costituivano un tutt’uno indissolubile (nell’individuo reale non è possibile separare la forma dalla materia).
    Per Aristotele dunque le forme intellegibili non si trovavano all’esterno delle cose (in una sorta di dimensione separata, come in Platone) ma erano invece immanenti in esse, interne alla materia. Non esistevano forme esterne alla materia e non esisteva realmente una materia priva di forma, poiché la materia amorfa era soltanto un concetto, un’astrazione intellettuale.
    Pertanto il dualismo platonico non aveva alcuna ragion d’essere: la realtà era composta da enti o sostanze individuali nei quali l’elemento formale (ideale-intellegibile) costituiva il loro aspetto universale, comune a più individui appartenenti al medesimo genere o alla stessa specie, mentre l’elemento materiale (sensibile) costituiva l’aspetto particolare, diverso da individuo a individuo: quindi due o più esseri umani possedevano un’identica forma, che li faceva appartenere alla stessa specie, ma si distinguevano tra loro in virtù della materia (il corpo), che era differente da singolo a singolo, per cui Socrate risultava essere persona diversa rispetto a Platone.
    La materia dunque costituiva il principio di individuazione, ossia l’elemento che rendeva possibile distinguere tra loro i singoli.
    Il filosofo immaginò un processo di questo tipo: la materia, essendo elemento passivo, sviluppava una sorta di resistenza all’azione plasmatrice della forma, per cui si generavano come delle irregolarità, delle anomalie o variazioni, che andavano a costituire i caratteri materiali particolari e peculiari di ogni individuo (il mio corpo, il tuo corpo ecc.).
    In virtù di ciò si spiegava l’esistenza di una molteplicità di individui differenti appartenenti però alla medesima specie.
    Aristotele inoltre ribadì chiaramente il primato ontologico dell’elemento intellegibile-formale (atto), universale, stabile ed eterno, su quello sensibile-materiale (potenza), che risultava invece particolare e soggetto al continuo mutamento: era il medesimo primato per cui l’atto risultava superiore alla potenza, la sostanza superiore agli accidenti e la metafisica superiore alla fisica.
    Occorre precisare tra l’altro che al tempo di Aristotele, e per molti secoli ancora, si credeva nella fissità delle specie viventi, cioè non si pensava affatto che esse si fossero evolute le une dalle altre: le specie erano sempre esistite così come erano.
    Ritornarono dunque nella metafisica i concetti di sostanza e accidente, di potenza e atto: infatti il filosofo dimostrò come si potesse parlare dell’essere in generale sia dal punto di vista della sostanza sia dal punto di vista degli accidenti, che non erano appunto realtà autonome ad autosufficienti ma costituivano modalità che si riferivano necessariamente alla sostanza.
    Inoltre il filosofo, nel V libro, approfondì il concetto di potenza e di atto, sostenendo che, quando si diceva che una cosa era, si potesse intendere che essa era in potenza o in atto. Egli definì la potenza come la capacità di produrre un mutamento in altro o di subire un mutamento da parte di altro, mentre l’atto venne definito come “l’esistere della cosa”, nel senso che coincideva con l’esistenza reale di un ente individuale.
    Molto importante fu inoltre la teoria della superiorità o della precedenza dell’atto sulla potenza. Aristotele dimostrò che l’atto era anteriore alla potenza in tre sensi: dal punto di vista del concetto, poiché la nozione di potenza presupponeva quella di atto; dal punto di vista cronologico, in quanto nella specie (ad esempio l’uomo) l’individuo già in atto precedeva l’individuo in potenza (il seme), anche se, rispetto al singolo individuo, la potenza precedeva l’atto; infine dal punto di vista della sostanza, in quanto il fine del processo preesisteva al processo, nel senso che il genitore precedeva il figlio.
    A ciò bisogna aggiungere che le forme (quindi l’atto) costituivano delle realtà incorruttibili e permanenti, come abbiamo già detto, mentre la potenza, coincidendo con la materia, implicava la corruzione e il mutamento.
    Essendo studio delle cause prime dell’essere in quanto essere, nella metafisica ritornò anche la teoria delle quattro cause (materiale, efficiente, formale e finale), attraverso cui tutte le cose erano e diventavano. A questo proposito il filosofo individuò una causa prima materiale, una causa prima formale e finale e una causa prima motrice.
    La causa prima materiale era data dalla cosiddetta materia prima, ossia quel sostrato comune che si trovava all’interno dei quattro elementi primordiali, ossia acqua, terra, fuoco e aria: c’era quindi un sostrato (la materia prima, appunto) che, pur non esistendo separatamente come elemento a sé, si trovava comunque nei quattro elementi primordiali sotto forma di elemento comune, rendendo possibile la loro esistenza e la loro differenza.
    La causa prima formale e finale venne invece individuata nelle forme intellegibili che, presenti all’interno del mondo, ne governavano e finalizzavano il divenire. Infine, nel libro XII della sua Metafisica, Aristotele individuò la causa motrice o efficiente di tutta la realtà, sia del cielo sia della terra: egli cioè dimostrò l’esistenza di un primo motore immobile, ossia di un ente superiore sovrasensibile, divino e perfetto (poiché immutabile e sempre in atto), da cui derivava tutto il movimento del cosmo e della natura. Noi tratteremo però questo tema nell’ambito della cosmologia.
    Concludiamo questa trattazione della metafisica aristotelica facendo cenno alla teoria dei tre principi (identità, non contraddizione e terzo escluso) che abbiamo già incontrato nella logica: infatti secondo Aristotele, alla filosofia prima spettava anche il compito di studiare quei principi che i matematici chiamavano assiomi, che però non riguardavano soltanto i numeri o il pensiero ma riguardavano tutti gli enti, quindi l’essere in quanto essere, dal momento che ogni cosa implicava l’identità, la non contraddizione e la scelta tra vero e falso (se A e B sono contraddittori, o è vero A o è vero B).
    Nel IV libro della Metafisica, il filosofo procedette alla famosa (per la sua importanza storica) dimostrazione del principio di non contraddizione, e sostenne che esso, essendo la condizione di tutte le dimostrazioni, non potesse essere dimostrato direttamente ma solo per confutazione, ossia confutando la tesi che lo negava.

    COSMOLOGIA

    Le leggi e i principi analizzati nella fisica e nella metafisica vennero applicati naturalmente alla descrizione del cosmo: Aristotele elaborò una visione cosmologica che ha avuto una grande importanza storica. Essa infatti fu poi ripresa dall’astronomo egiziano Tolomeo (II secolo d. C.) che, apportando alcune modifiche, diede vita a quella definitiva concezione aristotelico-tolemaica che costituì il modello cosmologico ufficiale e prevalente per lunghi secoli, fino alla rivoluzione astronomica del 1400-1500.
    Le opere cosmologiche di Aristotele furono soprattutto il trattato Sul cielo e lo scritto Sulla generazione e sulla corruzione, che, come abbiamo visto, contenevano anche teorie fisiche: il rapporto tra fisica e cosmologia era molto stretto, dal momento che il concetto di cosmo era implicito in quello di natura.
    Aristotele ereditò da Platone l’idea della netta distinzione tra cielo e terra ed ipotizzò l’esistenza dell’etere: mentre nella sfera terrestre, detta anche sublunare, tutte le cose erano riconducibili ai quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco), la cui caratteristica era quella di essere imperfetti e corruttibili, cioè soggetti al divenire, e di muoversi verso il basso e verso l’alto, nel cielo invece doveva esistere un quinto elemento, un elemento perfetto, quasi divino, l’etere appunto, una sorta di sostanza pura, cristallina, ingenerabile, incorruttibile ed inalterabile.
    Tutte le sfere celesti, da quella della Luna, la più bassa (rispetto alla Terra), a quella delle stelle fisse, la più esterna, erano formate da questo etere, e i corpi celesti che si trovavano in esse erano dotati di moto circolare, continuo, uniforme ed eterno.
    Quello che apparentemente sembrava spazio vuoto era invece pieno di etere. Il mondo celeste quindi era certamente superiore a quello terrestre e gli astri erano considerati come forme geometriche perfette, pure, cristalline, eteree appunto.
    La Terra era ferma al centro dell’universo e tutti gli astri allora conosciuti (Luna, Sole, Venere, Marte, Giove, Saturno, Mercurio) si muovevano seguendo il movimento del proprio cielo, erano cioè trascinati dalla propria sfera.
    L’ultima sfera era quella delle stelle fisse, le quali avevano la caratteristica di trovarsi alla medesima distanza dalla Terra. Quest’ultima sfera chiudeva l’universo, che quindi risultava finito e delimitato, oltre che unico (Aristotele escluse ogni ipotesi di pluralità di mondi) ed eterno, quindi non generato ed indistruttibile.
    Aristotele si staccò da Platone nella concezione dello spazio e criticò la teoria del vuoto di Democrito: Platone aveva considerato lo spazio grosso modo come un contenitore, come il luogo primordiale occupato dalla materia informe, avente quindi, in un certo senso, una sua realtà assoluta (nel senso che poteva essere immaginato anche senza materia).
    Aristotele invece espresse una concezione più relativistica dello spazio, sostenendo che non avesse senso parlare di spazio a prescindere dai corpi, in quanto lo spazio si riduceva ad essere il limite esterno dei corpi, il loro confine, il luogo che essi occupavano.
    Pertanto, se si fossero tolti i corpi, sarebbe scomparso anche lo spazio. D’altra parte lo spazio vuoto infinito sostenuto da Democrito risultava insostenibile anche perché in esso non c’era alcun punto di riferimento, né un alto né un basso, e quindi il moto degli elementi terrestri verso i luoghi naturali sarebbe risultato impossibile; il vuoto inoltre implicava un’assenza e una discontinuità della materia ma, per Aristotele, da nessuna parte dell’universo si trovava un vuoto poiché la materia era continua sia nella sfera terrestre che nelle sfere celesti (l’etere infatti era concepito come una sostanza che possedeva una propria densità cristallina) ed occupava ogni luogo. Anche la concezione del tempo ebbe un carattere relativistico in quanto Aristotele definì il tempo “misura del movimento secondo il prima e il poi”: ciò significava che non sarebbe esistito il tempo senza il movimento, ossia che il tempo era soltanto una funzione (misurata dall’uomo) dei corpi in movimento.
    Questo universo finito e delimitato (N.B. Aristotele ammise il concetto di infinito solo sul piano logico-potenziale o matematico, ossia come possibilità del pensiero umano di procedere all’infinito nella divisione di un corpo nello spazio o di aggiungere sempre un’unità alla serie numerica; nella realtà invece non esisteva uno spazio infinito e nemmeno una quantità divisibile all’infinito, come aveva sostenuto Zenone, il quale aveva confuso lo spazio reale con lo spazio geometrico) fu rappresentato secondo un modello finalistico, ed in ciò Aristotele fu vicino a Platone e contrario a Democrito, il cui universo, come abbiamo visto, era dominato invece da una legge meccanicistica, quindi antifinalistica.
    Tutta la vita naturale e cosmica risultava finalizzata, ossia guidata da cause formali e finali: non c’era evento o processo naturale che non fosse predisposto verso un fine, che non tendesse a realizzare uno scopo intrinseco. Anche il movimento delle sfere celesti obbediva a questa legge finalistica, anzi ogni sfera era costituita da una materia e da una forma: la materia ovviamente era data dall’etere, la forma invece era l’intelligenza motrice che causava e governava il movimento della sfera stessa.
    Secondo Aristotele il movimento (divenire) della macchina cosmica si trasmetteva e si comunicava da sfera a sfera, a partire da quella più esterna, in virtù del principio secondo cui “poiché ogni corpo mosso è mosso da un motore, è necessario anche che ogni corpo mosso nello spazio sia mosso da un altro. E il motore (la causa efficiente, la forma) da un altro motore, poiché anch’esso si muove; e questo a sua volta da un altro”.
    Ciò implicava però ammettere necessariamente l’esistenza di un principio del movimento, di un punto iniziale da cui esso prendeva le mosse, giacché, se ogni cosa era mossa da altro, non si poteva procedere all’infinito nella ricerca della causa prima: infatti se non si fosse trovata una simile causa, non si sarebbe potuto giustificare l’esistenza innegabile del movimento - divenire.
    Pertanto, salendo dalla Terra verso il cielo, cioè attraverso la catena dei motori, si giungeva a quello che Aristotele chiamò primo motore immobile, da cui si diffondeva appunto, per trasmissione, tutto il movimento cosmico e naturale. Abbiamo già accennato al fatto che il filosofo abbia sviluppato questa teoria nella sua Metaphysica. Egli si sforzò di dimostrare che se non si fosse ammessa l’esistenza di questa causa prima immobile, eterna e sempre in atto, non sarebbe stato possibile nemmeno ammettere la realtà del mondo. La necessità logica ed ontologica induceva quindi ad ammettere la realtà di un primo motore immobile e sempre in atto; ciò significava anche ritenere che la vita cosmica non fosse passata dal caos all’ordine, dal buio alla luce, dall’informe alla forma (come avevano sostenuto altri filosofi), ma che invece la condizione dell’universo fosse stata sempre quella che si osservava nel presente: non c’era stato alcun passaggio e non c’era ciclicità (nel senso di un alternarsi di nascita e morte dell’universo) e tutti i mutamenti cosmici erano avvenuti ed erano rimasti sempre entro l’ambito della medesima situazione in cui da sempre l’universo si trovava.
    La teoria del motore immobile costituì in un certo senso il pensiero teologico di Aristotele poiché il concetto di primo motore era assimilabile a quello di Dio, a quello del principio divino. Infatti il primo motore da un lato dava inizio al movimento del mondo ma dall’altro non si muoveva e non era mosso da alcunché, sia perché il movimento avrebbe implicato un limite, un’imperfezione del principio, sia perché, se anch’esso si fosse mosso, non sarebbe stato possibile chiudere il regressum in infinitum nella ricerca della causa prima: ma in questo caso il movimento stesso sarebbe rimasto senza una causa.
    Aristotele immaginò il movimento cosmico come un sistema di trasmissione: dal primo motore il movimento veniva comunicato direttamente al cielo delle stelle fisse che, a sua volta, lo trasmetteva alla sfera successiva (più precisamente al suo motore, ossia alla forma o intelligenza della sfera) e quindi a tutte le altre sfere fino ad arrivare alla Terra.
    Le sfere in tutto erano nove, compresa quella della Terra. Nel delineare la struttura del cosmo, Aristotele si rifece direttamente al modello elaborato dal platonico Eudosso (406-355), il quale aveva ipotizzato un complesso sistema di sfere concentriche.
    Eudosso infatti era stato costretto a modificare il precedente modello pitagorico in quanto esso non spiegava in modo soddisfacente il fenomeno delle anomalie dei moti planetari (retrogradazioni e variazioni della velocità). Egli così pose la Terra al centro ed ipotizzò che i pianeti fossero situati su sfere omocentriche, aventi come unico centro la Terra.
    Tuttavia, per poter giustificare il moto retrogrado (= i pianeti periodicamente invertivano la loro direzione di marcia e poi la riprendevano, descrivendo un moto simile a un nodo) e la variazione della loro velocità e luminosità Eudosso fu costretto ad ammettere l’esistenza di sfere ausiliarie interagenti con le sfere principali: così egli suppose che la sfera principale girasse intorno ad un asse imperniato su un’altra sfera, concentrica alla prima, e avente un altro asse e un’altra velocità; non essendo sufficiente questa condizione, egli ipotizzò l’esistenza di una terza sfera, di asse ancora diverso e differente velocità. In questo modo (cioè ammettendo una sfera principale e due ausiliarie) egli spiegò il moto del Sole e della Luna, mentre per gli altri pianeti fu costretto ad ammettere l’esistenza di un’ulteriore quarta sfera.
    L’ingegnosa combinazione dei moti circolari ed uniformi di tali sfere riproduceva, con una certa approssimazione, le irregolarità dei movimenti reali. Questo sistema di sfere omocentriche piacque ad Aristotele soprattutto perché si adeguava perfettamente all’idea fondamentale della sua dinamica cosmica, secondo cui la forza motrice dell’universo, proveniente dal Primo motore immobile, si propagava dalla circonferenza (quindi dalle Stelle fisse) fino al centro (Terra). Con tale modello però non solo si finì con l’ammettere l’esistenza di più di 50 sfere, ma si complicarono notevolmente i calcoli matematici, che divennero estremamente complessi, tanto è vero che Tolomeo (II secolo d. C.), pur condividendo l’impianto complessivo del cosmo aristotelico, operò una semplificazione, riducendo il numero delle sfere a 40.
    Ritornando alla questione del primo motore, abbiamo detto che la sua condizione era l’immobilità assoluta, ossia l’assenza di qualsiasi divenire: esso era dunque causa del movimento ma risultava al di fuori del processo totale del divenire. Ciò implicava anche che il Primo motore fosse completamente privo di materia, cioè di potenzialità, poiché materia e potenzialità presupponevano imperfezione e divenire: per questo esso era atto puro, ossia una forma eterna sempre realizzata e compiuta. Pur essendo estraneo al divenire cosmico, il primo motore risultava essere non solo la causa motrice ma anche la causa finale del mondo, cioè lo scopo verso cui tendeva tutto il divenire: il movimento della natura infatti, che derivava dal Primo motore, tendeva a sua volta verso la sua perfetta immobilità.
    Nella concezione aristotelica non c’era evidentemente una teoria della fine del mondo ma, coerentemente con le premesse metafisiche e fisiche del suo sistema, Aristotele non poteva non porre un fine complessivo alla vita cosmica e tale fine era costituito appunto da una tendenza naturale di tutti gli enti a convergere verso il primo motore, ossia verso la sua quiete assoluta.
    Il primo motore si poneva in una posizione di trascendenza rispetto al mondo, dal momento che esso risultava estraneo al divenire, tuttavia è bene sottolineare che per Aristotele tale trascendenza non implicava quel salto ontologico infinito tipico della concezione religiosa ebraica e cristiana. Infatti il primo motore non era un principio radicalmente separato dal mondo in quanto esso si trovava in un rapporto di continuità senza soluzione con la natura, si trovava a “contatto” con essa, per così dire, per quanto fosse diverso e superiore rispetto a tutti gli altri enti finiti. Questa diversità ontologica dell’atto puro (il suo essere senza movimento e senza materia) non implicava quindi una distanza infinita rispetto al mondo e non determinava una situazione dualistica (opposizione tra Dio e mondo).

    PSICOLOGIA: L’ANIMA COME FORMA, COME ATTO, COME PRINCIPIO VITALE DEL CORPO

    La concezione dell’anima di Aristotele fu strettamente connessa allo studio del mondo biologico, del mondo vivente: infatti, per il nostro filosofo, nella fisica, cioè nello studio della natura, rientravano anche quelle scienze che oggi si chiamano biologia e psicologia, cioè la scienza degli esseri viventi e quella dell’anima (psichè), dal momento che l’anima era proprio il principio di ogni forma di vita. Il trattato in cui si occupò di questo problema fu il De anima.
    Regno minerale, vegetale ed animale costituivano per Aristotele un sistema finalistico, dominato cioè da cause finali, e gerarchico, in quanto procedente dalle forme inferiori, proprie della natura inorganica, alle forme superiori, proprie della sfera animale culminante nell’uomo. Il concetto aristotelico di anima risultò coincidente con quello di vita: l’anima cioè costituiva il principio vitale degli organismi viventi, la loro forma. Mentre il corpo era una realtà materiale, l’anima invece non era materia ma attività, era precisamente il principio, il centro, la forma di questa attività, tanto che Aristotele la definì “la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza”. Dal momento che la forma di un ente coincideva con il suo essere in atto, l’anima costituiva l’atto del corpo vivente. Con questa teoria che considerava l’anima come forma e come atto del corpo, il grande filosofo risolse il dualismo platonico, ossia la contrapposizione tra anima e corpo: essendo l’anima l’essenza vitale del corpo stesso, essa formava un tutt’uno inscindibile con il corpo, non era cioè separabile da esso, come abbiamo d’altra parte già dimostrato attraverso la teoria del sinolo. La struttura degli enti naturali era dunque decisamente unitaria, tanto è vero che la distinzione tra anima e corpo era valida solo sul piano astratto del pensiero ma non era vera sul piano reale.
    Applicando questa concezione ai tre regni della natura (minerale, vegetale e animale), conseguiva che, essendo il regno inorganico privo di organismi viventi, esso era costituito solo da quattro forme generali, quelle dei quattro elementi naturali primitivi (terra, aria, acqua, fuoco). Nel regno della natura organica invece, costituita appunto da organismi individuali, si incontravano le vere e proprie anime, in quanto ogni ente vivente ne possedeva una. Quest’anima dunque, intesa come forma, come atto, come principio vitale, organizzava e rendeva possibile tutte le funzioni vitali che caratterizzavano e differenziavano i diversi organismi. Aristotele distinse tre diverse facoltà possedute dall’anima: 1) la facoltà nutritiva (o anche vegetativa), ossia la capacità di nutrirsi, crescere e riprodursi, tipica di tutti gli organismi; 2) la facoltà sensitiva e locomotoria, consistente nella capacità di sentire e muoversi, tipica solo degli organismi animali; 3) la facoltà intellettiva, ossia la capacità di pensare e comprendere, tipica solo degli uomini. Si trattava appunto di tre diverse facoltà interne all’unica anima e non di tre parti dell’anima, come aveva sostenuto Platone.
    Aristotele dunque difese il concetto dell’unità dell’anima, così come aveva difeso quello dell’unità dell’individuo naturale (sinolo). Queste tre facoltà in realtà si trovavano in un rapporto di successione e di implicazione, nel senso che la facoltà antecedente o inferiore era compresa in quella successiva o superiore (N.B. in alcuni testi queste tre facoltà vengono indicate con i termini di “anima vegetativa”, “anima sensitiva” e “anima intellettiva”, ma è solo una questione terminologica, nel senso che non si tratta di tre anime ma solo di tre funzioni dell’unica anima).
    Ogni organismo possedeva quindi solo un’unica anima: è evidente però che l’anima delle piante possedeva solo la facoltà nutritiva, l’anima degli animali possedeva solo la facoltà sensitiva, che però includeva e comprendeva in sé quella nutritiva, e l’anima degli uomini possedeva solo la facoltà intellettiva, che però includeva e comprendeva in sé quella nutritiva e sensitiva. Quindi le facoltà superiori svolgevano anche le funzioni vitali inferiori.
    Alla luce di questa teoria, risulta evidente la distanza esistente tra la psicologia di Platone e quella di Aristotele: Platone, per quanto si fosse sforzato di parlare di un’unica anima divisa in tre parti, di fatto aveva infranto l’unità dell’anima, poiché alla fine queste tre parti finivano col diventare tre anime numericamente e qualitativamente eterogenee (tanto è vero che l’anima razionale era stata considerata immortale). Per Aristotele invece l’anima costituiva un principio assolutamente unitario ed il suo rapporto con il corpo non si configurava in termini spiritualistici (anima razionale contro corpo materiale) ma solo come relazione forma-materia: essa era l’atto (vitale) che realizzava la potenzialità di vita del corpo materiale, in cui era immanente e da cui era inseparabile. Morto il corpo, non c’era ragione di pensare ad una sopravvivenza separata dell’anima-forma. Tuttavia, come vedremo nel paragrafo che segue, con la sua teoria dell’intelletto attivo, Aristotele introdusse nella sua filosofia la teoria dell’immortalità dell’anima intellettiva dell’uomo.

    GNOSEOLOGIA

    La posizione antiplatonica di Aristotele a proposito della concezione dell’anima venne ulteriormente confermata dalla teoria gnoseologica. Volendo usare una semplificazione di carattere generale, si può senz’altro affermare che mentre Platone fu un razionalista, nel senso che ammise l’esistenza di nozioni innate presenti nell’anima e svalutò la conoscenza sensibile, Aristotele invece può essere definito, con una certa approssimazione, un empirista, nel senso che negò qualsiasi forma di innatismo e assegnò un ruolo primario ed essenziale all’esperienza, quindi alle sensazioni.
    Per Aristotele dunque il processo conoscitivo prendeva avvio dai sensi e pertanto l’uomo non possedeva alcuna idea o concetto che non gli derivasse dall’esperienza, ossia dal materiale fornito dalla sensibilità: i concetti più astratti derivavano in ultima analisi dalle sensazioni. Anche la teoria della conoscenza fu trattata nel De anima, dal momento che il conoscere era appunto una facoltà dell’anima. Si diceva dunque dell’importanza delle sensazioni, senza le quali non sarebbe possibile alcuna conoscenza.
    I filosofi medioevali, riferendosi all’importanza dei sensi nel processo della conoscenza, sostennero che in Aristotele l’intelletto fosse simile a una tabula rasa completamente vuota, ossia a una tavoletta di cera senza alcun segno: solo dai sensi derivava dunque quel materiale che poi l’intelletto rielaborava per ottenere i concetti. La sensazione era dunque l’espressione della facoltà sensitiva e costituiva il primo gradino del processo conoscitivo. I due concetti fondamentali con cui venne spiegata la conoscenza sensibile furono quello di sensorio, ossia l’organo di senso che era capace di percepire, e quello di sensibile, ossia ciò che veniva percepito. Sia il sensorio che il sensibile potevano essere tanto in potenza quanto in atto: finché entrambi rimanevano nello stato di potenza, essi risultavano nettamente separati.
    Quando invece passavano in atto, cioè il sensorio percepiva realmente e il sensibile veniva effettivamente percepito, allora avveniva la loro sintesi, la loro unione, che generava appunto la sensazione, che non a caso fu definita da Aristotele l’atto comune del sensorio e del sensibile. La sensazione insomma era l’atto per mezzo del quale il sensorio subiva l’azione dell’oggetto sensibile e diventava simile ad esso, nel senso che il sensorio ne assumeva la forma sensibile ma non la materia: quindi, nel momento della sensazione, l’organo di senso assumeva la forma dell’oggetto sensibile e questo veniva effettivamente percepito, anche se restava materialmente distinto dall’organo di senso.
    Questo processo poteva avvenire attraverso un mezzo, ad esempio l’aria o l’acqua (per la vista, l’udito e l’olfatto), oppure direttamente (per il tatto e il gusto). Come si vede, Aristotele spiegò la sensibilità attraverso i concetti di potenza e atto: questa impostazione fu estesa poi anche alla funzione intellettiva, come vedremo, quindi tutta la conoscenza umana fu considerata dal filosofo alla stessa stregua dei tanti processi di divenire e mutamento che avvenivano in natura. I sensi dunque assumevano la forma sensibile dell’oggetto percepito, una sorta di impronta dell’oggetto. Questa forma però era ancora ben lontana dall’essere un concetto, ossia una forma intellegibile. Aristotele, oltre alla sensibilità, che era comune a tutti gli animali, ammise l’esistenza di altri superiori gradi di conoscenza:
    2) la memoria, che consisteva nel conservare il ricordo delle percezioni secondo la successione temporale (prima e poi); la memoria quindi era quella capacità che rendeva possibile la percezione del tempo da parte dell’uomo;
    3) l’immaginazione, ossia la capacità di produrre immagini, cioè rappresentazioni degli oggetti percepiti tramite i sensi, anche quando gli oggetti stessi non erano più presenti. L’immaginazione quindi presupponeva i sensi ma andava anche al di là di essi, in quanto consentiva di formare immagini della forma sensibile degli oggetti quando essi erano scomparsi;
    4) l’intelletto, ossia la capacità di conoscere i concetti universali, cioè le forme intellegibili (concetto = forma intellegibile), e di sviluppare ragionamenti.
    Il concetto (equivalente all’idea di Platone) costituiva la conoscenza suprema, era cioè una conoscenza puramente logica, priva di ogni residuo di particolarità e di materialità, che coglieva l’essenza delle cose.
    L’intelletto era dunque la funzione conoscitiva superiore, posseduta solo dall’uomo. L’analisi dell’intelletto, contenuta nel III libro del De anima, costituì il nucleo centrale della gnoseologia aristotelica. L’intelletto era una facoltà dell’anima ed era perciò immateriale, in quanto non aveva bisogno del corpo per svolgere la propria funzione.
    Anche l’intelletto venne considerato sia dal punto di vista della potenza sia da quello dell’atto. Esisteva un intelletto potenziale (detto anche passivo o materiale) ed esisteva un intelletto attivo (agente o produttivo).
    L’intelletto potenziale non possedeva ancora i concetti, le forme intellegibili, in quanto, essendo solo potenzialità, non aveva il potere di astrarre le forme intellegibili dalle quelle sensibili (astrarre = separare, sul piano del pensiero, l’elemento formale e intellegibile da quello materiale), ossia di far passare le forme sensibili, date dai sensi e dall’immaginazione, da intellegibili in potenza in intellegibili in atto. In altre parole l’intelletto passivo possedeva solo le forme sensibili, le immagini schematiche e generiche delle cose, i fantasmi (mentali) delle cose. Esso era una sorta di ricettacolo della mente ed era privo di concetto.
    Solo l’intelletto attivo o produttivo possedeva la capacità di astrarre, cioè di produrre concetti logici veri e propri. Tale intelletto produttivo era dunque una sorta di luce che rendeva intellegibile in atto ciò che era solo intellegibile in potenza. L’intelletto produttivo era dunque sempre in atto, immutabile nella sua condizione attiva: senza il suo intervento la mente avrebbe posseduto solo forme sensibili ma non concetti logici universali. In virtù di questo immutabile intelletto agente, “l’anima pensa e ragiona”.
    Ad un certo punto, nel De anima, Aristotele, in modo sintetico e un po’ oscuro, affermò che tale intelletto attivo era incorruttibile, immortale e separato. Mentre l’intelletto passivo era mortale e corruttibile, quello attivo non lo era. In sostanza il grande filosofo introdusse, con questa teoria, il concetto dell’immortalità dell’anima razionale dell’uomo. L’intelletto attivo, questa “luce” o energia spirituale sempre accesa, era destinato a sopravvivere alla morte del corpo. Aristotele non offrì alcuna dimostrazione, tanto è vero che su l’argomento presentò parecchi lati oscuri e problematici. Ad esempio non era chiaro cosa egli intendesse per “separato”: separato dalla stessa anima individuale o separato (quindi diverso) dalla materia, dalla sensibilità e dalla corporeità? Non era chiaro inoltre se questo intelletto attivo immortale fosse inteso come una realtà individuale e personale, cioè appartenente ad ogni singolo uomo, o fosse invece una realtà separata (trascendente), impersonale e comune, esistente cioè fuori dall’individuo, come una sorta di anima o intelligenza universale e collettiva della specie umana. Vedremo, studiando (l’anno prossimo) la filosofia medioevale, come questa teoria dell’intelletto agente darà luogo a diverse e contrastanti concezioni. Al di là di questo, comunque, essa costituì per certi versi una sorta di ricaduta nel platonismo da parte di Aristotele, in quanto l’immortalità dell’intelletto agente somigliava molto da vicino all’immortalità dell’anima teorizzata da Platone.

    ETICA

    L’etica riguardava le scienze pratiche, le quali studiavano ed analizzavano il comportamento e l’agire dell’uomo e non erano dimostrative. Il termine stesso etica (ethos = comportamento, carattere, temperamento) indicava l’oggetto specifico di questo tipo di sapere. In quanto scienza pratica (da praxis = azione), l’etica non conseguiva verità assolutamente certe ed indiscutibili, come quelle delle scienze teoretiche, e le sue conclusioni dovevano ritenersi soltanto probabili (= più o meno vere).
    Le opere di argomento morale di Aristotele furono soprattutto: l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemea e la Grande etica (la cui autenticità è però dubbia). Quella più importante e più matura fu l’Etica Nicomachea. Secondo Aristotele tutte le azioni umane avevano sempre alla base un fine, tendevano cioè a raggiungere uno scopo (l’uomo, come ogni cosa esistente in natura, non agiva senza scopi). Il comportamento dell’uomo era determinato da due fattori, uno razionale (la deliberazione, ossia la scelta consapevole) ed uno irrazionale ed istintivo (l’appetizione, ossia il desiderio). La combinazione di questi due elementi, il prevalere dell’uno sull’altro o l’equilibrio che poteva stabilirsi tra di essi, determinava la direzione e quindi il fine di ogni azione umana. Il problema centrale dell’etica era evidentemente la ricerca del bene e quindi della felicità (ritorna il concetto dell’eudemonismo = il bene coincide con la felicità), ma ciò implicava una definizione della virtù, ossia la ricerca di un criterio in base al quale un’azione potesse essere valutata come virtuosa o viziosa: il compito dell’etica era proprio quello di valutare la qualità morale di ogni azione.
    Aristotele distinse due generi di virtù: quelle relative alle attività pratiche (virtù etiche) e quelle relative alla conoscenza, ossia all’attività conoscitiva (virtù dianoetiche). Quelle etiche erano le virtù dell’agire in generale, mentre quelle dianoetiche erano le virtù intellettuali, connesse all’apprendimento e alla conoscenza.
    Le virtù etiche furono risolte attraverso il concetto di giusto mezzo. L’uomo, per poter essere virtuoso e quindi felice, doveva rifuggire dagli eccessi opposti, mirando ad attestarsi in una posizione mediana. Questa teoria fu poi sintetizzata nella formula latina “in medio stat virtus”. Tale posizione di mezzo la si raggiungeva quando la razionalità riusciva a tenere sotto controllo il fattore irrazionale ed appetitivo, evitando così che si potesse cadere nel vizio o difetto di eccesso. Così, ad esempio, il coraggio era una virtù poiché costituiva il giusto mezzo tra i due opposti vizi della viltà e della temerarietà (= coraggio sconsiderato) e questo criterio valeva per definire tutte le altre virtù etiche. Tra esse, Aristotele diede risalto in particolare alla giustizia e all’amicizia, ritenute fondamentali sia sul piano individuale che su quello collettivo. La giustizia perse quell’alone ideale e quasi sacro che aveva avuto in Platone e divenne una virtù più concreta e realizzabile, in quanto si riferì alla distribuzione di premi e punizioni nell’ambito dei rapporti e delle funzioni sociali: il filosofo distinse una giustizia commutativa da una distributiva.
    Quella commutativa consisteva nel dare in parti uguali premi e punizioni, come avveniva nei processi penali, in cui la medesima legge veniva applicata senza distinzioni a tutti; quella distributiva invece si basava sul criterio della proporzionalità, per cui ad ognuno veniva dato secondo i propri meriti o demeriti. L’amicizia invece consisteva in una forma di affetto che si provava verso gli altri (genitori, figli ecc.): essa era costitutiva dell’animo in quanto discendeva direttamente dalla natura socievole dell’uomo, il quale non poteva farne a meno se voleva essere veramente felice. Coltivare l’amicizia diventava dunque una forma di virtù, era una virtù. A tal proposito così si espresse “senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni”. Aristotele, da profondo conoscitore della natura umana quale era, fu tuttavia ben consapevole del fatto che non fosse per niente facile essere virtuosi, poiché la dimensione appetitiva ed istintiva dell’uomo era molto potente, più forte della stessa razionalità, che faceva fatica a frenarla e disciplinarla: d’altra parte i desideri e gli istinti risultavano fondamentali per poter agire (se non si desidera non si opera), poiché essi erano la vera molla del comportamento umano e consentivano di tradurre in pratica qualsiasi intenzione. Per tali ragioni Aristotele ritenne che una sola azione virtuosa non fosse affatto sufficiente per essere considerati veramente virtuosi, poiché occorreva che la virtù diventasse un abito, cioè un’abitudine, un comportamento ripetuto costantemente: soltanto un duraturo esercizio della virtù poteva consentire di acquisire un abito virtuoso. Questo principio valeva sia per le virtù etiche sia per quelle dianoetiche: essendo modalità di comportamento acquisite e non innate, le virtù potevano essere migliorate e perfezionate attraverso l’esercizio ripetuto e l’educazione. Le virtù dianoetiche (da dianoia = ragione) invece erano le virtù relative all’attività del pensiero, quindi all’attività conoscitiva.
    Esse erano cinque: arte, saggezza, intelletto, scienza e sapienza. Attraverso la pratica delle virtù dianoetiche l’uomo si elevava verso la verità. L’arte consisteva nella capacità o abilità di produrre, secondo un piano razionale, qualcosa di distinto dall’azione stessa del produrre (ad esempio l’artigiano che costruisce una sedia produce, attraverso un’azione razionale, un oggetto, la sedia appunto, che è qualcosa di distinto dalla prassi, cioè dall’azione del produrre: l’oggetto è solo l’effetto finale dell’azione ma non coincide con essa, così come la salute è l’effetto dell’azione del medico). La saggezza consisteva nella capacità di distinguere, di volta in volta, ciò che era bene e ciò che era male e quindi di scegliere i mezzi più idonei per conseguire il bene. L’intelletto era invece quell’abito mentale, ossia quella capacità conoscitiva che consentiva di intuire, di cogliere immediatamente i principi primi di tutte le scienze. La scienza a sua volta consisteva in quella capacità dimostrativa che permetteva alla mente di dedurre logicamente e necessariamente le conclusioni implicite in quei principi. Infine la sapienza era quella virtù teoretica suprema che consisteva in una sintesi di scienza e intelletto. Aristotele a questo proposito ritenne che un uomo potesse essere saggio anche senza essere contemporaneamente un sapiente, senza essere cioè un uomo di scienza: questo perché egli credeva che solo pochi uomini fossero capaci di elevarsi alle supreme virtù dianoetiche (intelletto, scienza, sapienza).
    Il filosofo inoltre affrontò il problema del sommo bene dal punto di vista dell’uomo: raggiungere il sommo bene significava realizzare la massima felicità (= eudemonismo), ma questa felicità veniva intesa dagli uomini in vari modi. Alcuni la identificavano con il piacere, altri con gli onori e la ricchezza, altri ancora con la contemplazione, ossia con la ricerca della verità. Secondo Aristotele la felicità e il bene si raggiungevano realizzando pienamente quella che era la natura specifica dell’uomo: tale natura non si esprimeva né con le attività connesse alla funzione vegetativa (nutritiva) dell’anima né con quelle connesse alla funzione sensitiva, che accomunavano gli uomini alla piante e agli animali; ciò che invece apparteneva solo all’uomo era l’anima intellettiva, per cui il sommo bene consisteva nel realizzare al massimo la virtù, cioè la perfezione, della facoltà conoscitiva. Pertanto colui che sviluppava in sommo grado la propria potenzialità conoscitiva raggiungeva la massima felicità e il massimo bene consentiti ad un essere umano. Lo stile di vita che permetteva di raggiungere questo scopo e questo bene era la vita speculativa e contemplativa, ossia la vita dedicata completamente alla ricerca della verità, in altre parole la vita del filosofo.


    LA POLITICA

    Se l’etica si occupava del come perseguire la virtù, il bene e la felicità da un punto di vista individuale, la scienza politica invece si occupava dei modi in cui perseguire il bene e la felicità da un punto di vista collettivo e sociale. Per queste ragioni la politica si poneva come la scienza pratica superiore, poiché le altre discipline pratiche (etica ed economia) e le stesse discipline poietiche, come la retorica, risultavano tutte subordinate al raggiungimento di quel bene supremo che poteva realizzarsi solo all’interno dello Stato, della polis. Infatti Aristotele definì la politica “scienza architettonica e legislatrice” e sostenne che il bene “è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città”. L’opera che racchiuse il pensiero politico di Aristotele fu la Politica, un testo in otto libri.
    Per Aristotele bene individuale e bene collettivo risultavano strettamente connessi, anzi l’uno era subordinato all’altro, per cui non era pensabile realizzare una felicità individuale duratura e solida al di fuori della polis (questa idea d’altronde era comune a tutta la cultura greca classica). La riflessione politica di Aristotele prese le mosse da un postulato fondamentale nonché innegabile: il riconoscimento della natura sociale dell’essere umano. L’uomo per natura era un animale sociale e politico (zoon politicon) e quindi il considerarlo come singolo isolato costituiva soltanto un’astrazione intellettuale che non corrispondeva alla realtà. L’uomo tendeva per natura ad aggregarsi in società insieme ad altri individui costituendo unità organiche; esistevano quindi diversi tipi di aggregazioni organiche che si disponevano in ordine di ampiezza e complessità: la famiglia, il villaggio (insieme di più famiglie), la polis.
    Ognuna di esse costituiva una società naturale, cioè un organo che contribuiva a formare la società politica generale, ossia l’organismo complesso che riassumeva in sé le forme organiche più semplici. Aristotele si occupò naturalmente anche dei diversi tipi di ordinamento politico che una polis poteva darsi. In questo senso egli continuò ed approfondì la riflessione di Platone, distinguendosi da lui nella classificazione delle Costituzioni possibili: infatti mentre Platone aveva utilizzato un criterio quantitativo per distinguere i diversi ordinamenti (governo dei più era la democrazia, il governo dei pochi e dei migliori l’aristocrazia, il governo di uno solo la monarchia), Aristotele invece si attenne ad un criterio prevalentemente qualitativo, in base al quale le diverse forme costituzionali vennero distinte a seconda dei gruppi sociali (ricchi, poveri, classe media) che esercitavano il potere; pertanto, più che alla quantità dei governanti, Aristotele guardò alla loro condizione sociale ed economica.
    Il filosofo, in effetti, ripropose la classificazione già elaborata da Platone anche se cambiò parzialmente la terminologia: così alle tre forme positive, nelle quali il potere era esercitato nell’interesse e per il bene di tutti, corrispondevano le relative degenerazioni, ossia le tre forme negative, nelle quali il potere era esercitato nell’interesse solo di una parte. Le tre positive erano: monarchia, aristocrazia e politìa (o politèia, un concetto diverso dal platonico “governo dei più”; politeia in greco significava “insieme dei cittadini” e stava appunto ad indicare la forma di costituzione migliore); le loro degenerazioni erano costituite dalla tirannide, dall’oligarchia e dalla democrazia. A proposito delle tre forme negative così si espresse Aristotele “la tirannide è una monarchia che persegue l’interesse del monarca, l’oligarchia quello dei ricchi, la democrazia poi solo l’interesse dei poveri. Al vantaggio della comunità non bada nessuna di queste”.
    Come già aveva fatto Platone, anche Aristotele riconobbe una eguale legittimità ad ognuna delle tre forme costituzionali, ma poi mostrò chiaramente di prediligere quella che lui chiamò politìa: essa era una forma intermedia tra monarchia ed aristocrazia e riusciva ad unire i loro pregi e a limitare i loro difetti. La politìa coincideva non tanto con il governo “dei più” (democrazia) quanto con il governo della classe media, cioè delle persone non troppo ricche né povere. Il ceto medio realizzava così, sul piano politico, quella medietà virtuosa di cui Aristotele aveva parlato nell’etica: infatti la classe media non aveva la violenza e l’arroganza dei troppo ricchi né la cattiveria e l’invidia dei troppo poveri, quindi si trovava nella condizione ottimale per esercitare il potere in modo saggio, giusto ed equilibrato. Anzi, la situazione costituzionale migliore era non solo quella in cui la classe media esercitava il potere ma anche quella in cui essa costituiva la maggioranza della popolazione (per quanto il filosofo fosse consapevole che nella realtà storica la classe più numerosa era costituita quasi sempre dai poveri). Per Aristotele dunque la differenza tra aristocrazia (governo dei pochi più ricchi) e politìa (governo della classe media) non si basava sul criterio quantitativo (quante persone governavano) bensì su quello qualitativo, nel senso che era veramente importante non quanti esercitassero il potere ma chi lo esercitava, cioè quale ceto sociale. Nel parlare di ceto medio egli si riferiva in particolare alla classe dei piccoli e medi proprietari terrieri (i mesoi): solo essi erano in grado di realizzare quell’equilibrio sociale da cui scaturiva il bene comune. E’ da segnalare anche il fatto che il filosofo ammise l’istituzione della schiavitù, giustificandola con vari argomenti: gli schiavi in sostanza erano uomini privi di ogni diritto, tanto è vero che erano messi sullo stesso piano degli animali e degli oggetti posseduti dai loro padroni.

    LA POETICA

    La poetica (= arte del bello e della poesia) apparteneva alle scienze poietiche, cioè produttive di un oggetto che risultava separato e distinto dal soggetto che lo produceva. Le teorie estetiche di Aristotele furono contenute nella Poetica, un testo di cui ci è pervenuto solo il primo libro. Nella lingua greca il termine poesia (poìesis) significava appunto produzione in senso generale, quindi l’arte poetica costituiva l’arte creatrice, l’arte che produceva il bello.
    Ma in cosa consisteva tale creazione-produzione? Anche per Aristotele, come per Platone, l’essenza dell’arte era data dall’imitazione (mimesis) della realtà: per Aristotele però questa imitazione riguardava non tanto e non solo la forma esteriore ma soprattutto il procedimento imitativo messo in atto dall’artista. In altre parole l’arte consisteva essenzialmente nell’imitare i processi produttivi della natura stessa. L’artista quindi imitava e riproduceva inconsapevolmente non tanto gli oggetti naturali considerati nella loro esteriorità, ma piuttosto i processi intrinseci attraverso cui la natura stessa creava e formava le cose. Questa diversa prospettiva indusse il filosofo ad avere verso l’arte un atteggiamento più positivo, ben diverso da quello censorio di Platone: Aristotele, infatti, riconobbe all’arte sia una funzione conoscitiva sia una funzione catartica (= purificatrice), che Platone aveva negato.
    Mentre per quest’ultimo l’arte, essendo imitazione di imitazione, cioè copia delle cose sensibili, allontanava dalla verità ed era quindi una falsa conoscenza, per Aristotele invece l’arte, in quanto riproduceva oggetti, azioni e procedimenti del mondo naturale ed umano, costituiva essa stessa una importante forma di conoscenza della realtà, anche se si trattava evidentemente di una conoscenza diversa da quella scientifica e sillogistica. Inoltre Aristotele non subordinò la creazione artistica all’etica e alla politica, come aveva fatto Platone: così l’arte acquistò piena autonomia rispetto agli altri ambiti umani.
    Il filosofo distinse inoltre l’arte poetica dalla storiografia (cioè la scienza della storia): infatti mentre la storia era sempre e soltanto conoscenza del particolare (un evento, un fatto, una serie di fatti particolari), la poesia invece realizzava una conoscenza più generale in quanto ricostruiva i fatti e gli oggetti non semplicemente per come erano ma piuttosto per come potrebbero essere. Ciò significava che l’arte si muoveva nell’ambito della possibilità, la quale si atteneva alle leggi della verosimiglianza, mentre l’ambito della storia era quello della realtà effettiva.
    In questo senso i contenuti dell’arte risultavano più universali proprio in quanto possibili, cioè riferibili a tutti, mentre i contenuti della scienza storica erano sempre e soltanto particolari, ossia legati ad un tempo, ad un luogo, ad una persona, ad un fatto preciso.
    L’arte inoltre, in quanto rappresentava eventi, emozioni, sentimenti umani, risultava catartica, cioè purificatrice, contrariamente a quanto aveva sostenuto Platone, per il quale la poesia tendeva piuttosto a suscitare e scatenare passioni negative. Secondo Aristotele invece la poesia (in particolare la tragedia e l’epica), nel momento in cui rappresentava emozioni e passioni, le trasfigurava, cioè le purificava, producendo un effetto liberatorio, catartico appunto: lo spettatore cioè, identificandosi in quello che vedeva, purificava e sublimava (= elevava) se stesso, le proprie passioni, trasformandole in una forma di conoscenza liberatoria. Le passioni quindi non venivano eliminate ma solo trasferite su un piano conoscitivo più universale, che consentiva di guardarle con distacco e di purificarle. Così Aristotele espresse questo concetto “vedendo nella commedia e nella tragedia le passioni altrui, fissiamo le nostre passioni, facciamo sì che esse diventino più misurate e le purifichiamo”. Nell’unico libro della Poetica che ci è pervenuto, Aristotele trattò in particolare della tragedia (tragedia ed epica erano per Aristotele generi alti, mentre lirica e commedia erano considerati generi poetici bassi ed inferiori), di cui stabilì quelle regole generali (come l’unità di azione, di tempo e di luogo) che per tanti secoli furono seguite da tutti gli autori di opere tragiche.




     
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