PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (sintesi ed integrazione)

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    PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (sintesi ed integrazione)

    La Rivoluzione industriale fu un complesso fenomeno economico-sociale che si verificò per prima in Inghilterra negli ultimi decenni del 1700. In generale con questi due termini si indicò il passaggio permanente ed irreversibile da un sistema economico prevalentemente agricolo-artigianale ad un nuovo sistema basato sulla produzione industriale, cioè sulla fabbrica meccanizzata.
    La Rivoluzione industriale fu dunque un processo complesso che interessò i diversi ambiti della società inglese (e poi europea), per cui si possono schematicamente individuare in essa i seguenti aspetti:
    1) incremento della produttività e dei mercati: nei precedenti modi di produzione economica non si era mai verificato un aumento così vistoso della produzione delle merci e della produttività del lavoro (= quantità di merci prodotte in una unità di tempo). Infatti la quantità delle merci prodotte con il sistema delle fabbriche meccanizzate non ebbe paragoni con il passato: il volume della produzione si moltiplicò enormemente e si produssero anche merci nuove che non esistevano in precedenza, a causa della mancanza di una tecnologia adeguata. Questa massa enorme di merci richiedeva la presenza di mercati in cui potere essere venduta: e infatti effetto e causa della Rivoluzione industriale fu un grande sviluppo dei mercati, sia interni (nazionali) che internazionali. A questo proposito fu determinante la presenza di un grande mercato nazionale inglese, poiché buona parte delle merci venne venduta proprio in Inghilterra, mentre il mercato internazionale ebbe un ruolo secondario. L’Inghilterra quindi poté avviarsi sulla strada dello sviluppo industriale anche perché, diversamente da altri paesi, aveva un forte mercato nazionale, che funzionò da traino dello sviluppo: non a caso nei paesi, come Italia, Spagna o Germania, in cui ancora non esisteva un unico e grande mercato nazionale, il decollo industriale arrivò molto più tardi.
    2) Urbanesimo e industrializzazione: l’enorme crescita delle città, che si registrò nell’età industriale, è da considerare come uno degli effetti più eclatanti della rivoluzione industriale. In questo periodo si formarono le prime vere metropoli moderne, che arrivarono a concentrare alcuni milioni di abitanti. L’aspetto urbanistico di alcune città europee subì profondi cambiamenti: fu proprio questo il periodo in cui iniziò l’abbattimento delle vecchie mura medievali, così che le superfici urbane si dilatarono enormemente. Poiché gli insediamenti industriali nacquero proprio all’interno delle aree urbane, si formarono le prime grandi periferie, nuovi quartieri popolari dove abitava prevalentemente il proletariato, ossia la classe degli operai delle fabbriche. Si trattava per lo più di sobborghi degradati, privi di servizi e di infrastrutture (scuole, ospedali, strade, uffici ecc.), in cui si ammassava una popolazione il cui tenore di vita era estremamente basso, spesso al limite dell’indigenza.
    3) Questione sociale: il discorso sulle periferie degradate introduce al grande tema della cosiddetta “questione sociale”. Con questa espressione si indicò quel complesso di problemi sociali, economici e culturali che riguardavano la nuova classe del proletariato industriale. In particolare la questione sociale si riferiva alle difficili condizioni di vita e di lavoro degli operai, per cui è possibile schematizzare il concetto individuando questi aspetti:
    a. salari bassi, quindi del tutto insufficienti a garantire un livello di vita dignitoso ed accettabile. In questa prima fase dello sviluppo industriale inglese ed europeo il proletariato subì un pesante sfruttamento economico, poiché i salari non erano affatto proporzionati alla quantità di lavoro; addirittura, secondo alcune teorie dell’epoca, che riflettevano la mentalità dei primi imprenditori, i salari bassi erano ritenuti necessari perché retribuzioni troppo elevate avrebbero stimolato l’ozio e l’assenza dal lavoro.
    b. Instabilità e precarietà del lavoro, in quanto le industrie davano lavoro soprattutto quando c’era una forte domanda di merci, ma appena questa scendeva, calava anche l’offerta, ossia la produzione, quindi si verificavano licenziamenti e disoccupazione. Il lavoro di fabbrica pertanto, molto più di quello agricolo ed artigianale, si presentava dipendente dalle continue fluttuazioni dei mercati, cioè dalle ricorrenti e cicliche crisi di sovrapproduzione (eccesso dell’offerta sulla domanda), proprio perché il sistema capitalistico-industriale tendeva per sua natura (la elevata produttività, la concorrenza) a produrre un volume sempre maggiore di merci senza tenere conto della domanda effettiva, senza valutare cioè con precisione le capacità di assorbimento dei mercati e di consumo della popolazione media. D’altra parte la crescente applicazione delle macchine alla produzione era a sua volta fonte di disoccupazione, poiché le macchine tendevano a sostituire, entro certi limiti, il lavoro umano. Questo fenomeno fu particolarmente avvertito dagli operai inglesi i quali, all’inizio dell’800, diedero vita ad una serie di violente manifestazioni che ebbero come bersaglio le macchine stesse: in Inghilterra questa protesta violenta contro le macchine, che andavano distrutte, prese il nome di luddismo, dal nome di un operaio che per primo distrusse un telaio meccanico (anche se alcuni storici hanno messo in dubbio l’esistenza reale di questo Nedd Ludd). Le macchine inoltre, non solo sottraevano lavoro agli operai, ma rendevano il lavoro sempre più piatto, ripetitivo e meccanico.
    c. Dure condizioni di lavoro: il lavoro di fabbrica si presentò ai primi operai come un’esperienza spiacevole e pericolosa; gli ambienti di questi opifici erano per lo più malsani e privi di qualsiasi condizione di sicurezza. Anche se i ritmi produttivi non erano ancora elevatissimi (come diverranno dopo), tuttavia l’orario di lavoro occupava quasi i due terzi di una giornata, aggirandosi intorno alle 15-16 ore. In questi ambienti, inoltre, vennero usati spesso anche i bambini e le donne (ritenuti più idonei a svolgere determinate mansioni), il cui lavoro non era ancora protetto da alcuna legislazione.
    d. Dure condizioni di vita: come abbiamo già accennato, gli operai vivevano per lo più ai limiti della sussistenza fisica, abitavano in case fatiscenti e sovraffollate, situate in periferie squallide. Il loro regime alimentare era scadente se non proprio carente; non avendo tempo libero a sufficienza né mezzi economici, non potevano curare la propria persona né la propria crescita culturale. Quindi erano prevalentemente analfabeti e rozzi. Questa durezza di condizioni di vita generò anche fenomeni di degrado umano e sociale, come la diffusione dell’alcolismo, della prostituzione e della malavita.
    e. Nascita del movimento sindacale e socialista: la gravità di queste condizioni di vita e di lavoro fece nascere l’esigenza di creare associazioni miranti ad aiutare il proletariato, al fine di tutelarne gli interessi economici e sociali. Nacquero così le prime associazioni di mutuo soccorso che assistevano gli operai in difficoltà, soprattutto in caso di malattia o di licenziamento. Si diffusero inoltre, tra ‘700 ed ‘800, le prime teorie socialiste che tendevano a delineare nuovi modelli di organizzazione della società, con lo scopo di eliminare le disuguaglianze economico - sociali e lo sfruttamento da parte di una classe sull’altra. Questo primo socialismo fu definito in seguito utopistico in quanto le sue idee risultavano troppo astratte e sganciate dalla realtà concreta ed effettiva, quindi impossibili da realizzare. Tra gli esponenti di questo originario pensiero socialista occorre ricordare in particolare: l’inglese Owen e i francesi Fourier, Babeuf, Saint-Simon, Proudhon. La mobilitazione e la lotta degli operai inglesi nei primi decenni dell’800 portò alla nascita di una prima forma di legislazione sociale, ossia un complesso di leggi e di norme aventi lo scopo di tutelare e proteggere gli interessi dei proletari, alleviando le loro condizioni di vita e di lavoro. Furono così approvate leggi che proibivano o limitavano lo sfruttamento del lavoro femminile ed infantile e che assicuravano un minimo di assistenza in caso di malattia, infortunio e vecchiaia. Nel 1824 gli operai inglesi ottennero il riconoscimento del diritto di sciopero e, all’inizio degli anni ’30, nacquero le prime organizzazioni sindacali, soprattutto le famose Trade Unions, che avevano appunto lo scopo di tutelare e difendere gli interessi economici e normativi degli operai nei loro rapporti con i datori di lavoro (i capitalisti). Tra gli anni ’30 e ‘40, inoltre, si sviluppò in Inghilterra anche un movimento politico chiamato Cartismo, il quale lottò per il riconoscimento del diritto di voto (attivo = per essere elettori e passivo = per essere eletti) agli operai, quindi per il suffragio universale.
    4) Presenza di capitali: uno sviluppo industriale non può verificarsi se non ci sono capitali sufficienti da investire per la costruzione degli impianti produttivi. Infatti uno dei fattori che consentì all’Inghilterra di fine ‘700 di dare inizio allo sviluppo industriale fu senza dubbio la presenza di capitali monetari. Gran parte dei capitali investiti nelle prime industrie proveniva dalle attività artigianali, manifatturiere e mercantili, che si erano sviluppate nei secoli precedenti, a partire dal basso Medioevo. I profitti di tali attività, moltiplicatisi nel tempo, avevano determinato quell’accumulazione originaria di capitale finanziario (= soldi liquidi) che fu investito appunto per costruire le prime industrie meccanizzate moderne. In questo contesto, un ruolo di una certa importanza fu svolto anche dal sistema bancario inglese, che era il più avanzato dell’epoca: le banche infatti utilizzarono una parte dei loro capitali per finanziare queste nascenti attività industriali, concedendo prestiti a medio o lungo termine. Tuttavia complessivamente, nell’ambito della Prima rivoluzione industriale, il ruolo del sistema bancario fu ancora piuttosto limitato, mentre sarà decisivo nella Seconda rivoluzione industriale (fine ‘800-inizio ‘900). Sembra inoltre che sia stato ridotto e secondario l’impiego di capitali provenienti dalle attività agricole (o, secondo alcuni storici, dalle stesse attività mercantili), poiché solo una piccola quota di essi sarebbe stata investita in industrie.
    5) Ruolo dell’agricoltura: a parte la questione dei capitali investiti, comunque le attività agricole furono abbastanza importanti nel sostenere la domanda interna, poiché le grandi trasformazioni in atto in questo settore richiesero un uso crescente di strumenti metallici, che vennero forniti proprio dall’industria nascente; inoltre una parte consistente della popolazione contadina, essendosi proletarizzata (vedi enclosures), divenne di fatto consumatrice e quindi contribuì ad incrementare il mercato nazionale.
    6) Settori industriali trainanti: i settori più importanti della Prima rivoluzione industriale furono senza dubbio quello tessile, quello siderurgico e quello minerario.
    Il tessile fu certamente quello trainante, poiché proprio in esso si verificarono quelle trasformazioni che poi si estesero agli altri settori. I due rami più importanti dell’industria tessile furono quello laniero e quello cotoniero. L’industria della lana aveva già raggiunto, nella prima parte del ‘700, uno sviluppo eccezionale, anche perché essa era legata alle tradizioni tipicamente inglesi; tuttavia fu soprattutto l’industria cotoniera a diventare, seconda metà del secolo, il vero settore d’avanguardia, a causa del concorso di fattori favorevoli. Tra essi in particolare la convenienza economica del cotone rispetto alla lana, data la facilità di reperimento, a basso prezzo, del cotone grezzo sul mercato americano nonché la migliore lavorabilità e resistenza della fibra del cotone rispetto a quella della lana. Come vedremo, il ruolo trainante del tessile rispetto agli altri settori industriali fu dovuto soprattutto alle decisive innovazioni tecniche che esso fece registrare. Anche l’industria siderurgica conobbe un sensibile sviluppo produttivo e tecnologico: sicuramente la Prima rivoluzione industriale fu la rivoluzione del ferro. L’Inghilterra infatti, che era un paese importatore di ferro, ne divenne esportatore. Gran parte della produzione industriale di ferro fu assorbita dalla costruzione delle nascenti linee ferroviarie: il loro grande sviluppo, nella prima metà dell’800, stimolò senza dubbio la produzione siderurgica. Strettamente connesso al settore siderurgico fu quello minerario ed estrattivo, che ebbe un notevole peso nello sviluppo industriale inglese: l’Inghilterra infatti era avvantaggiata rispetto ad altri paesi in quanto possedeva ingenti giacimenti di carbone, il cui uso come fonte di energia risultò decisivo in quanto si collegò alla scoperta del motore a vapore.
    7) Innovazioni tecniche: il discorso sul carbone e sul motore a vapore introduce al tema importantissimo delle innovazioni tecniche che resero possibile questa grande trasformazione economica. Infatti l’industria capitalistica moderna si basò essenzialmente sull’applicazione più o meno estesa della tecnologia meccanica al processo produttivo. Tale applicazione fu appunto favorita da alcune decisive scoperte tecnico-scientifiche: da citare in primo luogo l’invenzione del motore a vapore da parte di J. Watt, il quale riuscì a trasformare l’energia termica del calore in energia meccanica; l’uso del nuovo motore a vapore risultò determinante in molti settori industriali e anche nel campo dei trasporti (treni e traghetti). In genere questo motore si avvalse del carbone come combustibile: pertanto fu importantissima la scoperta, da parte di Abraham Darby, del carbone coke, che veniva ottenuto tramite un processo di distillazione e di purificazione del carbone di origine minerale. Il coke infatti garantiva una resa decisamente superiore rispetto al carbone normale: infatti, poiché il coke era un carbone puro, da cui erano state quindi eliminate tutte le impurità, esso non liberava più, durante la combustione, quei gas che invece venivano emanati dal carbone di legna e che, mescolandosi al metallo, lo rendevano particolarmente fragile. Inoltre la scoperta del coke consentì di localizzare gli impianti siderurgici in modo più razionale, cioè non più necessariamente vicino ai boschi, come era imposto prima. Molto collegata al coke fu la creazione, nell’ambito dell’industria siderurgica, del sistema del puddellaggio (puddlage system), introdotto da Henry Cort: esso consisteva in un nuovo tipo di altoforno, detto a riverbero, che impediva che durante la combustione si liberassero carbonio ed altri gas e permetteva quindi l’uso del coke anche nelle operazioni di affinamento della ghisa per ottenere ferro lavorabile. Decisive inoltre furono le scoperte tecnologiche nel settore tessile: J. Kay inventò la spoletta volante, che permise di innovare le macchine per tessere nell’ambito del settore laniero; in esso infatti si meccanizzò prima la tessitura e soltanto dopo la filatura. Tutto il contrario avvenne invece nel settore cotoniero, dove venne meccanizzata prima la filatura, con l’invenzione del filatoio meccanico, ad opera di Arkwright (che inventò il water frame, ossia il filatoio ad acqua) e di Samuel Crompton (che costruì una macchina detta mule-jenny, più avanzata rispetto al filatoio di Arkwright).
    8) Capitalismo industriale e sua origine storica: la Prima rivoluzione industriale significò l’avvento del cosiddetto capitalismo industriale, che costituì la forma più avanzata del sistema economico capitalistico. Il capitalismo infatti ha assunto storicamente varie forme, di cui quella industriale è stata soltanto l’ultima e senza dubbio la più importante. Sulle origini storiche del capitalismo industriale sono state avanzate diverse ipotesi ed interpretazioni, che noi cercheremo di sintetizzare.
    Tuttavia occorre preliminarmente tentare di formulare una definizione essenziale del capitalismo stesso, tenendo conto però che ogni possibile definizione dipende in ultima analisi dall’interpretazione storiografica che si dà del capitalismo stesso. Comunque, al di là dei diversi punti di vista interpretativi, è possibile individuare senz’altro quelli che sono i caratteri peculiari ed essenziali del sistema capitalistico: 1) proprietà privata dei mezzi di produzione (l’espressione mezzi di produzione indica l’insieme delle macchine, degli stabilimenti, delle materie prime, degli strumenti, delle fonti di energia necessari per produrre); 2) libera concorrenza e competizione sui mercati: l’economia capitalistica produce soprattutto per vendere e non per soddisfare esigenze e bisogni dei produttori stessi, quindi essa è definibile come vera e propria economia di mercato; 3) investimenti di capitali allo scopo di realizzare profitti: il capitalista cioè investe i propri capitali per farli fruttare e non per altri scopi; 4) uso di tecniche razionali e di tecnologia nell’attività produttiva: l’economia capitalistica cerca di razionalizzare al massimo il lavoro, al fine di renderlo sempre più produttivo, per questo si avvale di tecnologia (la bottega artigianale del Medioevo ancora non era una vera industria capitalistica); 5) disponibilità di forza-lavoro, ossia dell’attività lavorativa offerta dagli operai in cambio di un salario. Per quanto concerne le interpretazioni storiografiche circa le cause e l’origine del sistema economico capitalistico si possono così schematizzare le teorie più importanti:
    1) interpretazione marxista: fu quella sviluppata da Karl Marx, filosofo ed economista tedesco dell’800 e teorico del movimento socialista. Secondo Marx tutti i sistemi economici che si erano avuti nella storia erano nati sempre dalla disintegrazione del sistema che li aveva preceduti, in cui erano maturate le condizioni di quello successivo. Per tale ragione il capitalismo sarebbe nato dalla crisi e dalla dissoluzione dell’economia feudale “la struttura della società capitalistica è derivata dalla struttura della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella”. Secondo l’interpretazione marxista quindi il sistema capitalistico si formò quando in alcune zone dell’Europa occidentale si determinò una netta separazione tra i possessori dei capitali (i capitalisti, che avevano denaro e mezzi di produzione) e i venditori della propria forza-lavoro, ossia gli operai che non possedevano null’altro che le braccia per lavorare. Quindi l’essenza del capitalismo per Marx stava nello scambio tra capitale e lavoro, che si erano ormai separati (chi possedeva i capitali non lavorava e chi lavorava non possedeva i capitali). Tale situazione (la formazione di una classe di capitalisti e di una classe di operai) si determinò grosso modo tra il XV ed il XVI secolo e da essa prese avvio, secondo Marx, il modo di produzione capitalistico-industriale, affermatosi poi definitivamente in Inghilterra nella seconda metà del ‘700. All’interno di questo complesso processo economico-sociale, ebbero importanza decisiva alcuni fattori, come il fenomeno delle enclosures, di cui si è parlato in altra sede; la scomparsa progressiva della servitù della gleba; la dissoluzione delle corporazioni medioevali; l’urbanesimo; l’accumulazione del capitale monetario (si formarono, nel giro di alcune generazioni, grandi capitali monetari, che permisero poi di acquistare facilmente mezzi di produzione e forza-lavoro); la nascita degli Stati nazionali moderni, che favorirono i ceti borghesi in vario modo, eliminando ad esempio le leggi e i privilegi feudali, promuovendo e proteggendo l’accumulazione di capitali monetari e le appropriazioni di terreni demaniali, reprimendo il fenomeno del vagabondaggio e favorendo quindi la formazione del proletariato (nascita in Inghilterra delle workhouses, in cui i vagabondi erano costretti a lavorare).
    2) Interpretazione mercantile: con questo termine si vuole evidenziare un’ipotesi storiografica che attribuì la causa dello sviluppo capitalistico non tanto alla separazione e contrapposizione tra capitale e lavoro ma soprattutto all’affermazione dell’economia mercantile, verificatasi in Europa occidentale già a partire dai secoli XI e XII. Senza i mercanti del tardo Medioevo non sarebbe nata l’economia capitalistica. Appartennero a questa corrente storiografica studiosi come il tedesco Lujo Brentano (1844-1931), lo storico belga Henry Pirenne (1862-1935), il sociologo tedesco W. Sombart. All’interno di tale prospettiva interpretativa si evidenziarono naturalmente posizioni ed angolazioni diverse, che non misero in discussione però la tesi di fondo. Ad esempio Brentano sottolineò che fu “nel commercio che si incontra per la prima volta il profitto di tipo capitalistico”, dal momento che non si produceva più per l’autoconsumo ma per la vendita e per lo scambio merce-denaro. Il capitalismo mercantile dunque, basato sulla produzione per la vendita, sulla diffusione del denaro e sulla pratica dell’usura, costituì la prima forma storica del sistema capitalistico, da cui si svilupparono successivamente il capitalismo bancario e quello industriale. A sua volta il Sombart ha sottolineato che, per risalire alla genesi del capitalismo, non era sufficiente individuare la formazione di un gruppo sociale dedito professionalmente al commercio, ma era necessario anche ammettere l’affermazione di nuove forme di comportamento da parte dell’aristocrazia terriera, degli artigiani urbani e dei mercanti medioevali. Tale nuovo comportamento è individuato dal Sombart nella tendenza, tipica della nuova classe, a realizzare un’ingente accumulazione di capitali e a reinvestire i profitti in imprese gestite secondo criteri di razionalità ed efficienza. Per Sombart quindi il mercante si era progressivamente trasformato in imprenditore, una figura nuova proveniente anche da quegli strati sociali più marginali nella società feudale, come gli ebrei, gli stranieri, gli eretici.
    3) Interpretazione weberiana: fu elaborata dal sociologo tedesco Max Weber (1864-1918) nel suo famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Egli sostenne che non si potesse semplicemente far risalire la nascita del capitalismo ai due elementi del capitale e del lavoro, poiché essi erano sempre esistiti, e nemmeno allo sviluppo dei commerci e degli scambi. L’economia capitalistica nacque in Occidente, secondo Weber, quando si manifestò e si affermò una organizzazione razionale del lavoro salariato, che nei secoli precedenti non si era mai verificata, pur esistendo il lavoro dipendente, i capitali ed il commercio. In sostanza, ad un certo punto dello sviluppo storico occidentale, intervenne un fattore culturale che indusse i possessori di capitali a impiegare le loro risorse in modo nuovo, cioè in modo sempre più razionale, efficiente ed organizzato: tale fattore fu appunto lo spirito del capitalismo, che andò gradualmente diffondendosi per affermarsi poi vigoroso con la teoria calvinista del lavoro. Le dottrine calviniste della predestinazione e della professione come vocazione furono dei potenti stimoli allo sviluppo dell’economia capitalistica: da un lato infatti la predestinazione spingeva verso il dovere di ritenersi eletti, prescelti dal Signore, dall’altro il segno tangibile di tale elezione era individuato nel successo nella vita sociale e lavorativa; infatti la dottrina raccomandava di dedicarsi ad un “indefesso lavoro professionale”, in quanto ciò significava essere lo strumento della potenza divina. Il successo nella vita professionale, misurato dalla ricchezza, era quindi un segno della volontà di Dio. Il calvinismo quindi contribuì notevolmente ad esaltare la vocazione al lavoro, lo spirito di sacrificio e d’iniziativa, la sobrietà nei costumi e nello stile di vita, il valore positivo della ricchezza, non considerata più peccaminosa e fonte di vizio (al contrario divennero negative e peccaminose la povertà e la pigrizia). Alla mentalità dello spreco e del lusso, tipica dell’aristocrazia, la nuova borghesia calvinista contrappose una vita dedita al lavoro, permettendo così la “formazione del capitale grazie alla costrizione ascetica al risparmio”, il cui solo e degno impiego era l’investimento produttivo. Ciò non implicava naturalmente che il capitalismo si fosse poi sviluppato conservando intatta questa ispirazione religiosa, la quale, una volta che il sistema ebbe dimostrato tutta la sua efficacia, venne progressivamente meno e fu sostituita dalla disciplina del lavoro e dalla pura e semplice razionalità economica.

    FORME DI LAVORO SALARIATO PREINDUSTRIALE

    Il lavoro salariato si affermò decisamente con l’avvento dell’industria moderna; tuttavia esistevano già alcune forme di lavoro salariato in epoca precedente a quella industriale vera e propria. C’erano infatti: 1) il lavoro salariato nelle botteghe artigianali e nelle manifatture; gli apprendisti e gli operai, in cambio del loro lavoro, ricevevano un salario; 2) il lavoro a domicilio, svolto prevalentemente nelle campagne, commissionato ai contadini dai mercanti-imprenditori; molte famiglie contadine infatti integravano i loro magri redditi accettando di lavorare in casa per conto di un mercante-imprenditore, che consegnava un materiale grezzo o semilavorato e ritirava la merce finita in cambio di un salario. Il lavoro a domicilio quindi realizzò una prima forma di divisione del lavoro e riguardò una o più fasi del processo di produzione di una merce; inoltre esso consentì un risparmio sulla manodopera, poiché i contadini chiedevano mediamente compensi minori degli operai urbani. Il lavoro a domicilio si sviluppò soprattutto nel settore tessile e contribuì a preparare l’avvento del lavoro industriale vero e proprio; 3) il lavoro agricolo svolto nelle prime aziende capitalistiche sorte soprattutto nelle campagne inglesi, come abbiamo visto a proposito della fine del sistema dell’open field: si creò sia la figura del salariato agricolo, ossia un dipendente fisso dell’azienda agraria, sia quella del bracciante, cioè un operaio agricolo precario, che prestava la sua opera solo in certi periodo dell’anno, in cambio di un salario.

    MANIFATTURA E INDUSTRIA

    Abbiamo accennato alle manifatture: che differenza c’era tra manifattura e industria vera e propria? Bisogna precisare che storicamente il capitalismo manifatturiero ha preceduto e preparato quello industriale. La manifattura infatti costituì la forma capitalistica più vicina a quella industriale. Le manifatture per molti aspetti furono un prototipo della fabbrica moderna; infatti in esse c’era il proprietario che possedeva i capitali (materie prime, strumenti, locali, fonti di energia, ecc.) e gli operai che possedevano solo la loro forza-lavoro. Tuttavia tra la manifattura e l’industria moderna ci furono almeno due differenze fondamentali: le dimensioni e gli strumenti di lavoro. Le manifatture, infatti, non raggiunsero grandi dimensioni, come quelle delle fabbriche; per quanto grandi potessero essere, esse non superarono mai un certo numero di operai e quindi ebbero una limitata capacità produttiva. L’industria moderna invece si caratterizzò subito per le sue grandi dimensioni, arrivando ad avere anche migliaia di operai e a produrre enormi quantità di merci. Inoltre nella manifattura gli operai lavoravano con degli strumenti tecnologicamente abbastanza semplici, che erano ben lontani dalle macchine complesse ed evolute delle industrie moderne. Anche lo stile di lavoro era molto diverso: nel lavoro della manifattura lo strumento era comunque dominato dall’operaio, che lo usava per esprimere la sua abilità e creatività; nel lavoro industriale invece la macchina sottomise l’operaio., lo subordinò ai suoi ritmi e ai suoi tempi, rendendolo in un certo senso suo schiavo. Pertanto il lavoro nell’industria moderna risultò prevalentemente alienante, meccanico, piatto, ripetitivo, mentre quello della manifattura era in confronto più gratificante, più vario, più attivo e creativo. Ciò comportò un’ulteriore conseguenza: mentre il lavoro della manifattura richiedeva un minimo di specializzazione e di abilità tecnica da parte dell’operaio, il lavoro di fabbrica invece fu tendenzialmente generico e dequalificato (tranne che per una ristretta élite di operai superspecializzati), e non richiedeva, se non in rari casi, perizia e capacità.

    ORIGINI DEL PROLETARIATO INDUSTRIALE

    Sulle origini sociali del primo proletariato industriale sono stati condotti vari studi, nei quali però risulta evidente il fatto che la classe operaia inglese ed europea si sia andata formando attraverso l’aggregazione di strati sociali di diversa provenienza. Una quota consistente dei primi operai di fabbrica proveniva senza dubbio da quella massa di vagabondi, sbandati ed indigenti che popolava le città: in Inghilterra, ad esempio, molti di essi passarono direttamente dalle workhouses (in cui di fatto erano stati rinchiusi) alle fabbriche. Un altro strato provenne invece dal settore artigianale, poiché molti artigiani, rovinati dalla concorrenza dell’industria, furono costretti a proletarizzarsi.
    Infine, come abbiamo avuto modo già di vedere, un terzo strato derivò dalle campagne, in particolare da quei contadini espulsi dai campi a causa dei processi di trasformazione che si erano verificati: secondo un’interpretazione prevalente, un parte della classe contadina andò a formare nelle prime città industriali una massa di disoccupati disposti a vendere la loro forza-lavoro a buon mercato. Come abbiamo sottolineato in altra sede, questa interpretazione non è condivisa da altri studiosi, secondo i quali invece i piccoli coltivatori e gli affittuari inglesi non sarebbero andati a lavorare nelle fabbriche urbane, ma sarebbero diventati tutti salariati agricoli o braccianti.























     
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