LA FISIOCRAZIA

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    LA FISIOCRAZIA (integrazione)

    La fisiocrazia fu il nuovo pensiero economico che subentrò al mercantilismo e ne ribaltò i concetti: la fisiocrazia si sviluppò grosso modo nella prima metà del ‘700, quindi appartenne di fatto al clima culturale dell’Illuminismo.
    Con la teoria fisiocratica si può certamente parlare della vera nascita della scienza economica moderna, che fu chiamata economia politica.
    I fisiocrati contestarono in primo luogo la concezione mercantilista del valore economico, sostenendo che esso non derivasse affatto dalle attività mercantili e manifatturiere, ma che si originasse invece dall’attività agricola. Il discorso dei fisiocrati era, a grandi linee, questo: manifatture e commercio si limitano a trasferire e trasformare una ricchezza, cioè un valore, che derivava soltanto dalla natura, e quindi soprattutto dall’agricoltura, intesa come l’attività economica più legata alla natura.
    Essi infatti notarono che solo il lavoro agricolo possedeva quella proprietà di moltiplicare il valore dei beni investiti (la semente, il lavoro), poiché nel raccolto finale c’era un valore aggiunto che “prima” non esisteva. Pertanto, secondo questa teoria, solo madre natura era considerata fonte autentica e unica di ogni forma di ricchezza: infatti, come abbiamo accennato, le attività manifatturiere e i commerci non facevano altro che trasformare, tramite il lavoro, una materia prima originaria che era offerta generosamente dalla natura.
    Quindi la fonte primaria di ogni valore economico risiedeva nella natura e di conseguenza l’agricoltura, che costituiva il lavoro applicato direttamente alla natura, rappresentava l’attività economica più importante.
    Nell’ambito della fisiocrazia il valore economico venne identificato con qualcosa di fisico, ossia con gli oggetti materiali offerti dalla natura.
    I fisiocrati, cioè, ancora non compresero che il valore non poteva essere identificato semplicemente con un oggetto naturale, cioè non compresero quella che sarà chiamata l’equivalenza valore = lavoro (ossia il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro sociale che essa incorpora), come sarà affermato dalla scuola economica classica (quella del pensiero liberista e poi marxista).
    Ponendo la natura e l’agricoltura alla base del sistema economico, i fisiocrati considerarono le leggi dell’economia come leggi naturali: lo stesso termine fisio-crazia significava alla lettera “potere della natura”. Il ritenere che le leggi dell’economia fossero naturali implicava come conseguenza l’idea che esse fossero astoriche, cioè non storiche, quindi immodificabili, stabili e universalmente valide nello spazio e nel tempo.
    In netta contrapposizione alle strategie protezionistiche del mercantilismo, i fisiocrati ritennero che lo Stato non dovesse assolutamente intervenire nel processo economico, proprio perché l’economia rispondeva a regole naturali, quindi bisognava “lasciarla fare”.
    Essi pertanto furono decisamente contrari all’adozione di norme, vincoli, dazi e limitazioni varie. Il motto dei fisiocrati, che espresse sinteticamente tale concetto, fu il celebre “laisser faire, laisser passer”: essi cercarono di applicare tale principio in modo particolare al commercio dei grani, che volevano fosse completamente liberalizzato, in quanto ritenevano che ciò si risolvesse in un vantaggio per tutti, produttori e consumatori. In questo senso i fisiocrati furono convinti sostenitori della libera concorrenza contro il protezionismo monopolistico dei mercantilisti (monopolio ed oligopolio = uno o pochi soggetti controllano un intero settore di produzione o vendita).
    Gli esponenti più significativi della fisiocrazia furono francesi, in quanto la Francia fu la culla dell’Illuminismo europeo. Tra essi bisogna ricordare Quesnay e De La Riviere.

    IL LIBERISMO

    Il liberismo fu quella dottrina economica che si sviluppò soprattutto in Inghilterra tra la fine del 1700 e i primi decenni del 1800: il liberismo, quindi, coincise grosso modo con la Rivoluzione industriale, di cui fu, per molti aspetti, la teoria economica.
    Notevoli furono le affinità esistenti tra fisiocrazia e liberismo, tanto che si può quasi affermare che il secondo sia stato un’evoluzione della prima (N.B. il termine liberismo non è da confondere con liberalismo: infatti il liberismo è una teoria economica, mentre il liberalismo indica quella concezione politica che teorizza il rispetto dei diritti di libertà da parte dello Stato).
    Il liberismo anglosassone ebbe in Smith e Ricardo i suoi massimi esponenti. I liberisti accettarono l’idea fisiocratica circa la naturalità delle leggi economiche (sistema economico come sistema naturale) e quindi condivisero il principio del non intervento dello Stato in economia: Adam Smith arrivò a formulare la teoria della “mano invisibile” secondo cui, quando il singolo individuo perseguiva il proprio profitto ed il proprio particolare interesse, nello stesso tempo, inconsapevolmente, per opera di una mano invisibile, quella della natura stessa, egli faceva anche l’interesse generale e collettivo.
    Per Smith quindi la ricchezza privata tendeva a distribuirsi inevitabilmente a tutta la società, premiando in modo particolare gli individui più attivi e meritevoli (la ricchezza di un individuo raggiungeva indirettamente anche gli altri attraverso il lavoro che egli offriva e i soldi che spendeva).
    Tuttavia ci fu una differenza fondamentale tra fisiocrazia e liberismo: essa riguardò la teoria del valore economico, ossia da cosa derivasse il valore di una merce e quindi la ricchezza degli individui e delle nazioni. Fu soprattutto David Ricardo a formulare la teoria del valore=lavoro. In sostanza il valore di una merce era un elemento oggettivo ma non fisico, in quanto esso era dato in ultima analisi dalla quantità di lavoro sociale medio necessario per produrre quella merce. Ogni merce, per essere prodotta, incorporava una certa quantità di lavoro sociale e da esso derivava il suo valore oggettivo e misurabile (valore “sociale” dei liberisti contro valore “naturale” dei fisiocrati).
    Corollario di questa teoria fu l’idea che la fonte principale della ricchezza di una nazione risiedeva nelle attività industriali, attraverso cui si creava effettivamente un valore nuovo (la merce finita), che “non c’era” nelle materie prime e quindi nella natura.
    Era dunque il lavoro umano la vera e unica origine del valore economico. La natura, da sola, non aveva alcun valore e non poteva crearne senza che il lavoro umano intervenisse a trasformarla e a modificarla secondo le esigenze degli uomini. David Ricardo dunque intuì l’equivalenza esistente tra lavoro e valore e questa intuizione sarà poi ripresa e approfondita da K. Marx, il teorico del socialismo scientifico.
    Come già detto, il liberismo economico di Smith costituì la teoria del capitalismo industriale, di cui cercò di cogliere gli aspetti e i meccanismi: Smith comprese che il carattere specifico del capitalismo industriale era quello di produrre enormi quantità di merci per i mercati e che periodicamente potevano verificarsi delle crisi di sovrapproduzione; anzi, il sistema del capitalismo industriale tendeva ad accentuare quella tendenza, già presente nelle forme capitalistiche precedenti (capitalismo manifatturiero e mercantile), ad alternare periodi di forte crescita ed espansione a periodi di recessione (= diminuzione delle attività economiche), in cui cioè, a causa dell’eccedenza delle merci, crollavano i prezzi, non si vendevano le merci e quindi si era costretti a ridurre la produzione, provocando la disoccupazione.
    Smith riteneva che tale meccanismo fosse fisiologico, naturale ed inevitabile, benché comportasse costi sociali. Il sistema comunque da solo, senza interventi indebiti da parte dello Stato, era in grado di ritrovare il proprio equilibrio, ristabilendo il giusto rapporto tra domanda ed offerta: ad ogni crisi recessiva sarebbe seguita quindi una nuova fase di sviluppo, secondo un andamento ciclico del tutto naturale.
    La scuola economica liberista inglese si diffuse anche in Francia, dove si impose soprattutto la figura di J. B. Say (1767-1832). Say però modificò la teoria ricardiana del valore = lavoro: per il Say infatti il valore di una merce non era dato dalla quantità di lavoro necessaria per produrla ma soltanto dalla valutazione “soggettiva” della sua utilità, ossia dalla valutazione di colui che ne aveva bisogno e di colui che la offriva. Il criterio oggettivo della quantità venne sostituito così da quello soggettivo dell’utilità.







     
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